Tobias era troppo vecchio per guardare la luna e sognare: quando gli occhi stanchi per avere visto tante cose, guardano verso il cielo, lo fanno spesso per cercare Dio ed implorare il suo aiuto. Per Tobias che, tutto solo, intraprendeva in salita il sentiero che lo conduceva a casa, osservare i cambiamenti della luna a seconda delle sue fasi, era come assistere ad un bel gioco.
«Ma guarda un po’!» diceva in un soliloquio «questa sera, mia bella signora, hai proprio un bel faccione!» Quando, invece, la luna era calante e lui d’umore nero, sospirava: «cara sorella, stanotte sei brutta e vecchia come me!» In fondo anche così la luna gli stava bene perché, pure se non era piena, gli rischiarava la strada.
Quando nel cielo appariva come una fettina di melone o uno spicchio di limone, a seconda di come la osservava nella sua momentanea immaginazione, Tobias mostrava il suo rammarico e, borbottando le diceva: «sei miserella, eh! Se non fosse per quella piccola stella che brilla accanto a te, non ti vedrei nemmeno!» Se nell’ora del rientro, nuvole nere giocavano a nascondino con la luna o, grevi di pioggia, la coprivano tutta, il suo ritorno a casa diventava triste e silenzioso. Poi c’erano i giorni completamente bui, quando gli alberi neri come la pece, sembravano mostri in agguato, e la notte si spegneva in un impalpabile silenzio. Allora, tutte le stelle del firmamento apparivano solo piccoli lumi. Tobias fantasticava spesso sull’altra faccia della luna, quella oscura e lontana che i terrestri non possono vedere, ma che il sole continua ad illuminare. «Forse un giorno» pensava «quando la luna e la terra smetteranno di muoversi in sincronia, noi uomini curiosi scopriremo il mistero delle cose non viste!» Capitava spesso che Tobias diventasse un po’ filosofo, un po’ pensatore. «L’uomo» diceva «è come la luna, ha sempre una faccia oscura, imperscrutabile, lontana e sconosciuta.
Lui è come il suo destino che solitamente nasconde il suo imprevedibile volto! Gli eventi scorrono: tutto è chiaro nella luce del sole, ma schermata da un angolo buio, sorella morte compone la parola: “fine”».
Tobias aveva studiato poco, ma nelle notti lunghe e spesso insonni, i suoi pensieri sembravano bucare il cielo. Quel pomeriggio, rincasava quando il fuoco del sole, spegnendosi dietro i monti, cedeva il posto ai lievi e tondeggianti contorni della luna. Aveva lasciato il campo di bocce prima del solito perché Amerigo, l’amico di sempre, si sentiva male. «Questa sera, caro Tobias, sono così stanco da non reggermi in piedi. Me ne torno a casa, ma tu potrai continuare a giocare con Ginetto e Ninì che arriveranno tra poco» aveva detto con la voce che gli tremava un po’! «Amerigo, che ti succede? Vuoi che ti lasci andare via da solo, ora che non ti senti bene? Ti accompagno a casa dove la tua Martina ti farà come nuovo con una delle sue speciali tisane. Beato te che una moglie ce l’hai, io invece, mi ritrovo a parlare con la luna o con Tenebroso, il mio gattone nero, più vecchio e più spelacchiato di me!» Tobias lasciò l’amico davanti alla porta di casa dopo che Martina, un po’ allarmata per l’orario inconsueto, era accorsa per prenderlo in consegna. «Vuoi che ti faccia un po’ di compagnia?» aveva chiesto Tobias prima di andare via. Il poveraccio che scottava come una pentola pronta a buttar giù la pasta, lo ringraziò dicendogli che preferiva fare una bella dormita.
Tobias, un po’ preoccupato, intraprese la strada di ritorno insieme ai suoi pensieri. La sua vita gli passava davanti come un film alla moviola, e lui lasciava riaffiorare le immagini con la stessa lentezza del suo passo. Il tempo e le sue vicende avevano risucchiato i suoi anni più belli con la furia di un uragano, ed ora che aveva superato da poco i settant’anni, si voltava indietro, cercando di contarli tutti. Il suo aspetto era ancora gagliardo, ma quell’anca sbilenca lo tormentava un po’. Quella gamba sgangherata che Tobias si portava dietro da quando aveva diciotto anni, rappresentava la “storia” della sua storia. A quell’età, libero come un uccello di bosco, andava spesso a fare fascine sulle montagne di Mondovì, la bella cittadina dov’era nato dai genitori Linda e Leandro Pavoncelli. La provvista di legna per il freddo dell’inverno non era mai sufficiente e poiché il mese di novembre era già alle porte, toccava a lui, unico maschio della famiglia, provvedere ad ulteriori provviste. Si ricordava proprio come fosse stato ieri di quell’anno che aveva dato una svolta al suo destino.
L’estate di S. Martino era arrivata con un po’ in anticipo negli ultimi giorni d’ottobre. Il sole era così caldo che sembrava assurdo pensare che presto le meravigliose valli verdeggianti del cuneese si sarebbero imbiancate. Ma chi era nato lì, lo sapeva! In una di queste belle mattinate, percorrendo la strada che saliva ripida verso la collina, Tobias si sentì raggiungere dall’eco di una voce. Dapprima confuso, si fermò ad ascoltare e si allarmò non appena ne distinse le parole: «aiuto, aiuto!» urlava una donna. Si diresse dove il suono era più forte: l’urlo veniva dalla fine della discesa scabrosa, in prossimità di un dirupo. Con l’energia della sua giovinezza, si precipitò giù a balzi, ed ancora prima di arrivare sul posto, distinse la sua giovane amica Katia che agitava le braccia affinché qualcuno la vedesse. «Arrivo! Che c’è?» gridò «Tobias, ti prego, prendi Ninetta: è precipitata giù!» riferì Katia. Gli bastò guardare un po’ più in basso, per capire la dinamica dell’accaduto. Ai bordi di un precipizio, un melo faceva bella mostra dei suoi frutti. Nel ramo proteso verso la strada, ve n’erano alcuni rossi e maturi che sembravano così vicini da potere essere raccolti con facilità. Ninetta, la compagna inseparabile di Katia, si sporse per prendere una mela, ma prima ancora di poterlo fare, il terreno sdrucciolevole le mancò sotto i piedi, facendola precipitare nella scarpata. Tobias la vide raggomitolata sul fondo, e rabbrividì al pensiero che quel fantoccio era la bella ragazzina che conosceva. Si liberò del giubbotto e lo lasciò cadere senza curarsi di dove andava a finire. «Via, via s’intimò. Devo prendere Ninetta subito: non c’è tempo da perdere!» Pochi salti e le fu accanto; lei non aveva perso i sensi, né sanguinava. Era molto spaventata e provava dolore dappertutto. «Non chiamare nessuno; proverò a salire, appoggiandomi a te» gli disse, ma lui non sentì ragione e, presala in braccio, s’inerpicò per ricondurla sulla strada. «Sto bene!» ripeteva Ninetta, mentre abbracciava Katia, ed entrambe, poco più che adolescenti, non sapevano se ridere o se piangere. «Stai buona qui!» le disse Tobias e la posò sull’erba così come si fa con un fiore. «State tranquille, vi accompagnerò io a casa!» Si ricordò, però, del suo giubbotto che era andato a finire poco lontano da lì, sugli sterpi. Scese per recuperarlo, ma qualcosa d’inaspettato squarciò la terra in quel punto, insieme ad una grossa fiammata. A giacere tramortito sul ciglio della strada, ora era Tobias.
Le due facce della luna di Adalgisa Licastro – Il Convivio, 2012 – pag. 224
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Il commento di NICLA MORLETTI
In tutti i romanzi di Adalgisa Licastro si nota che alla base vi è un’ottima preparazione culturale, una profondità di sentimenti che l’autrice trasmette in uno stile narrativo sobrio, elegante, classicheggiante. E questo singolare romanzo affascina il lettore per la felice e amabile descrizione di luoghi e personaggi, per le convincenti metafore e per la profondità dei sentimenti. Ne emerge una natura amica, nel mutare delle cose, degli eventi e delle stagioni.
Si può ancora guardare la luna e sognare? Che affinità c’è tra l’uomo e il romantico e pallido astro che rischiara la notte nel cielo di stelle? Lascio a voi lettori il gusto di leggere pagine nuove, fresche come acqua di sorgente, profonde come possono essere solo i sentimenti più veri. Lascio a voi lettori la scoperta di: “Le due facce della luna.” .