L’infanzia e la prima giovinezza di Liliana –
Liliana T. viveva, nella seconda metà del XX secolo, in base al calendario Gregoriano, assieme ai genitori ed alla nonna paterna in un grosso caseggiato situato nella periferia della città di Bologna. L’alloggio occupato dalla famiglia era composto dalla cucina e da due camere. In una di queste, la più vasta e meglio arredata, dormivano i genitori, nell’altra, dacché la sorella maggiore di Loredana, la Noemi, si era sposata, dormiva, sola, Liliana; la nonna aveva preferito seguitare a coricarsi sul vecchio sofà sistemato per lei in cucina, perché in inverno, stagione in cui i suoi dolori alle ossa si accentuavano, quell’ambiente si manteneva tiepido anche di notte. L’appartamento era privo di servizi igienici, un unico gabinetto sul ballatoio serviva alle tre famiglie del piano; questa circostanza non rappresentava una grossa privazione né per la nonna, vissuta per la maggior parte della vita in campagna, che considerava i sottoprodotti della digestione, al pari dello sterco delle vacche, una ricchezza, di cui in città si faceva spreco, né per Liliana, cresciuta in città ma avvezza dai tempi dell’asilo comunale su su fino al lavoro in negozio a fare la fila davanti alla porta di una latrina più o meno pulita. La mamma invece, che teneva un laboratorio di sarta in casa, con tanto di preziosa specchiera installata in camera da letto, perché le clienti ci si provassero innanzi gli abiti, della stanza da bagno mancante se ne faceva un cruccio, timorosa del giudizio di certe signore sempre pronte ad arricciare il naso di fronte al volgo, anche se con tutto il loro elevato sentire non esitavano poi a tirare sul prezzo e facevano sospirare a lungo il saldo della fattura. Comunque, ogni volta che attendeva una cliente per la prova, con un prudente anticipo la madre di Liliana inviava la suocera a nettare lo sconcio ubicato giusto a lato della porta di casa, stando poi all’erta timorosa che qualche vicino usasse i servizi dimenticandosi, compiuto il bisogno, di ripulire il loco e di serrarsi dietro l’usciolino, così che tutto il tempo dell’attesa era un incessante andirivieni della nonna dalla cucina al cesso. Il padre di Liliana faceva il netturbino, guadagnava poco, il magro mensile e la mancata assegnazione della casa popolare cui avrebbe avuto diritto avevano fatto sì che il Comune, successivamente alla nascita della seconda figlia, contribuisse per metà al canone mensile di affitto. Era un ometto di bassa statura, magro, dai capelli rossastri arruffati e con due grandi e mesti occhi colore verde chiaro; trascinava zoppicando la gamba destra e questa invalidità gli rendeva molto gravosa l’incombenza di sollevare e di scaricare i bidoni del rusco entro il camion di raccolta. In servizio militare di leva allo scoppio della seconda guerra mondiale, era stato subito inviato sul fronte russo, dove una scheggia di granata lo aveva colpito a una gamba; rispedito in Italia e dichiarato inabile al servizio attivo almeno aveva evitato la disastrosa ritirata dai tenitori bolscevichi. Era stato messo in un reparto di fureria a Ferrara, nel settembre del 1943, dopo l’armistizio, era tornato senza grosse difficoltà a casa. Però i Repubblichini volevano arruolarlo, cos’ì aveva abbandonato la famiglia, il padre inabile per una grave bronchite asmatica, la madre che vendeva uova, verdure e patate al mercato nero per tirare avanti; era andato a nascondersi in mezzo alla boscaglia su in collina, presso le sorgenti del Savena, si era costruito, come tanti altri, un riparo di fascine sopra un pavimento di sassi. Sua madre un paio di volte la settimana gli portava da mangiare percorrendo la salita parte in bicicletta e parte a piedi, la sporta dei viveri appesa al manubrio. Un giorno poi erano arrivati i tedeschi, c’era stata una spiata, con mitra e con camionette, gli imboscati erano scappati arrancando su per i calanchi fino alla cresta degli Appennini, ed erano discesi giù nell’opposto versante anelandosi a nascondere nella foresta di abeti. Era stata una marcia senza sosta né cibo di tre giorni, coi tedeschi alle calcagna pronti a sparare su qualsiasi cosa si muovesse entro il loro campo visivo; il padre di Liliana faceva fatica a tenere il passo cogli altri, la ferita alla gamba si stava riaprendo per lo sforzo, ad un certo punto era crollato al suolo, ma era stato soccorso da un compagno grosso e robusto, il Raul, che non temeva né diavoli né tedeschi e che se lo era caricato sulle spalle e lo aveva portato sul dorso per una notte e un giorno.
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Dal libro La commessa dagli occhi verdi di Paola Grandi.