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L’età ingiusta di Giovanni Luigi Navicello

L’alba. Una smorta prima ora luceva. Tra le sterrate fangose si camminava ogni notte a sentire i ciuffi del riso che a moltitudini strusciavano sui polpacci il virgulto. La fredda aria della sera, svanita da una settimana, era il ricordo dell’inverno. Le mani di mio padre tenevano le mie sul sentiero giacché di luci solo le stelle erano e, non distante, il Panaro lento andava per l’Emilia.
La second’ora del mattino avanzava con malinconiche sfumature vermiglie che accennavano una quercia, una rondine, un nebbioso marzo ancora acerbo. Me seduto su un troncone spezzato poggiato all’erba. Mi sedeva lì il padre mio, sempre. Era rifugio d’allodole riparato dai venti poiché rimaneva al lato estremo del podere, contro una stacciata di legni usati per bruciare nei camini ed anche perché non mi potevo spostare poi di molto mentr’egli sbarbava il trifoglio per le vacche. Quello mattutino era il momento migliore per tagliare l’erba. Usava una falce con manico di legno e una grossa mezzaluna terminale affilata, lunga all’incirca un metro.
L’acqua torbida a Campolongo in ottobre cresceva con le piene e non poche volte ci obbligava a ritrarci annegando i campi da coltivare. Il Panaro lo sentivi nei muggiti dalle stalle che salivano lamentosi e tutti a pregare, tra le biade ed i vitelli, che piovesse meno e che gelasse sui tetti e sulla terra. L’acqua si malediceva e si adorava come una donna capricciosa che ti promette, come quegli zoccoli duri fatti con le rubinie che ti obbligavano ad abituare i piedi al legno e non ti scaldavano che poco più.
Quarantatré famiglie erano tutto il paese di Pradello, frazione tra Modena e Bologna. Trenta vivevano in un cascinale sopra la collina e tredici avevano preferito casette robuste sparse qua e là. Erano case di contadini con gli anni troppi, rattoppate tra le muffe dei muri e quell’immacolata continuità di pater et filius, uxor et mater e nuove nascite che le stanze grandi contavano un letto unico. Al servizio delle levatrici si copriva di corpi piccoli e mani ancora di più. Accresciute avrebbero poi preteso la terra.
“A so brota e burnitela, an so brota e an so bela, a pas el mare senza nave, a rap el monte senza scala, a so piò brota do te e a vegh a magner a la tevla de re. ”
Mio fratello Giovanni mi affissava smarrito e non capiva che la risposta all’indovinello gli stava proprio sopra la testa. Appiccati al soffitto mazzi di capraggine imbevuti di latte. Sgocciolava, ma poco. Il resto suggeva nelle bocche delle mosche.
Il ronzio crepitava a fuoco le notti. Questo da sempre, anche quando sull’aia mio padre Giacomo tenne per la prima volta in braccio Naigher. Era un cane da pagliaio, un cucciolo con le orecchie pendenti, la coda arricciata ed il pellame macchiato di chiazze scure. Con lui Ruggero che lo aveva portato e regalato. Un cane da pagliaio non valeva nulla ed era uso si desse via alla nascita, più che altro per pietà. Servivano solo ad abbaiare ai foresti ogni qual volta si avvicinavano e per addestrarli, ancora piccoli, si fingeva di farli buttare con rudezza da uno sconosciuto dentro a un forno acceso. Quella mattina scoppiettava e vermigliava ed i guaiti di Naigher, mentre Giacomo lo stringeva verso il fuoco, erano ansanti suppliche adatte ad un mare che sta per infrangere, ad un fiume ostacolato alla foce che scoppia sé stesso perendo sulle radiche e sulle prode.
“At mett in te foran, parche ttan cnossa insun d’intoran. ” Si mescolavano la lingua e l’ululo, la voce scossa e il corpo tremulo, la forza imposta e l’esilità del piccolo, tant’è che, lasciato, come ogni bastardo corse celandosi tra porte da porcile a salivarsi il corpo latrante. La sera mia madre mescolò del pane masticato e qualche pelo nostro e glielo diede in pasto. Sbranò il corpo come i discepoli con Cristo.
Le stagioni si posavano su noi con scorrere da natura, sugli animali, quelli buoni e quelli cattivi. V’erano gesti e usi che ricordavano ad ognuno primavere o inverni tant’è che se fosse lunedì o venerdì, il primo di ottobre o il trenta di aprile, poco importava. La luna, la pioggia, i santi, le formiche, il vento… questi erano i contatori della vita, gli ammonitori di sbagli o riuscite. Il primo di maggio d’ogni anno era uso preparare la majè, una sorta di corona composta da rami di pioppo intrecciato e fiori. Andava posta sui davanzali delle finestre dei locali da proteggere dalle brighe. Le formiche onnipresenti vaganti si arrestavano sui maggiociondoli oppure Giovanni, con mio padre, all’orto benediceva la terra tracciandovi croci cristiane ai lati delle zolle scosse dove poche piante e qualche seme erano il nostro avere. Ai primi tuoni di primavera si pestavano i piedi alle galline affinché producessero uova con la continuità dei canti delle francesine .
Mia madre Elvira mescolava il suo sapere da maestra elementare con quello delle credenze popolari trovandole a tratti utili, a tratti ingenue e per brevi attimi lo stupore, solo questo, le faceva capire che una cosa per stupida che fosse poteva funzionare. Tra Sant’Andrea e Sant’Antonio, una volta l’anno, tutto Pradello uccideva il maiale. Legato per il grugno, vicino all’acqua calda, al paranco e ai coltelli, due uomini lo tenevano stretto. Io me ne stavo distante, ma il suo piangere disperato non potevi non sentirlo. Strappava singhiozzi anche ai neonati che lo confondevano per quello dei fratelli rivolti alle madri ed era senza fine. Si pensava che la lentezza del morire portasse sangue migliore. Il ciabattino era lì pronto a prendersi le setole del porco con le mani, sfregando destra e sinistra. Dal sorriso capivi se erano di qualità. Il parroco e il podestà zagagliavano dei fatti loro che non erano i nostri solo a brevi tratti e già si gustavano con gli occhi le frattaglie perché loro, quelli ricchi, mica ce l’avevano l’nimal. Non si doveva uccidere nel primo quarto di luna e nei giorni del 7, del 13 o del 17. S’era preso dal malocchio, perché magro e malato, gli si tagliava un pezzetto d’orecchio o di coda e, fatto bollire, si gettava poi nel letamaio.
La superstizione era forte tra la povera gente anche in quella istruita. “Che te ne fai del cervello se poi non riesci a pensare per la fame?” diceva mia madre. Ma fuori la fortuna della terra era ancora sufficiente, tra i sorrisi decrepiti dei vecchi e il profumo delle puerpere.
Pradello più che paese era a tratti famiglia, a tratti collina, a tratti piane e pascoli. Qualcuno conosciuto lo trovavi sempre e sempre curvo, o ritto e teso, a sforzarsi di vedere il giorno dopo. Nei giorni del Signore passavano per Pradello strascichi di fiere e mercati grandi con utile ed inutile a fare mostra di sé, con i loro guaritori abilitati, con i loro domatori di pulci. I primi erano di solito settimini, ma andavano bene anche i maschi nati settimi figli della stessa madre o quelli con la camicia. Curavano le vacche e gli uomini con forza d’esperienza che, in alcuni casi, portavano a mo’ di segni sulla pelle propria. Si pagavano quando con un prosciutto, quando con altro. Per gli uomini bastava un favore restituito. Il tempo per farlo era tutta una vita e la garanzia la parola di chi giurava la sua gratitudine. I pazienti stavano con le croci dalla bocca all’ombelico e poi impacchi di portulaca tritata per il verme solitario, pidocchi per l’itterizia. Alla bisogna anche pentolini d’acqua fredda e piombo fuso, sacchetti di spicchi d’aglio da tenere nelle tasche e quant’altro quelli prima di loro avessero sperimentato. Se qualcosa andava male c’era sempre il dottore, ma lontano.

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Leggiamo e commentiamo insieme questo brano tratto dal libro L’età ingiusta di Giovanni Luigi Navicello, recensito da Nicla Morletti nel Portale Manuale di Mari.

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