Sulla frontiera della Vertojbica di Alberto Calavalle

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Una sera sotto le stelle

La cena era appena terminata. A quell’ora d’estate la fatica della mietitura piegava le forze di grandi e piccini, ma come avveniva alla fine di ogni giorno, il nonno non volle rinunciare alla recita del rosario.
Nei brevi intervalli tra le intonazioni della sua debole voce e il coro forte di risposte della famiglia patriarcale, la campana dell’Ave Maria giungeva come un’eco lontana tra le pareti antiche della cucina di Ca’ Guercinello e la luce del giorno che moriva, scendeva dall’abbaino in una penombra carica di raccoglimento.
Concluso il momento dello spirito seguì un’intesa sulle faccende del giorno dopo, quindi Luigi uscì di casa per mettere il paletto alla porta delle stalle. Affascinato dalla calma della notte, sedette sul ciglio della strada all’incrocio col sentiero dell’aia.
Un leggero vento di brezza saliva dalla valle di Santa Barbara a temperare il caldo di quella giornata; portava il profumo del fieno appena tagliato e del grano maturo. In un casolare della valle un lume acceso vegliava nel buio: qualcuno si attardava nella stalla o in cucina per qualche lavoro da completare. Un assiolo dalle campagne di Sant’Andrea in Serradocre rompeva con i suoi acuti la quiete della notte, un altro gli ripeteva il verso dai boschi lungo le pendici del Montesanto. Sotto un cielo di stelle sempre più fitte e luminose, si disegnavano leggeri e lontani i profili dei monti e nei campi di grano si accendevano, come per un magico riflesso migliaia di piccole lucciole.
Respirando profondamente Luigi si adagiò sull’erba soffice, provando al suo contatto una piacevole sensazione di freschezza. Mentre osservava il ciclo, la sua attenzione fu attratta da una stella, che sembrava brillare di una luce sempre più intensa.
Una sera d’inverno di molti anni prima, quando morì il bisnonno Giovanni, egli si aggirava smarrito per casa insieme alle sorelle e ai cugini. Si vedeva da lontano che lui e gli altri soffrivano per la scomparsa del bisnonno. Mancavano loro anche le storie che il vecchio si divertiva a raccontare la sera attorno al fuoco.
Allora la nonna, mentre raccoglieva il filo all’arcolaio , decise che qualcuno doveva riempire quel vuoto. Riunì i suoi sedici nipoti davanti al camino e raccontò loro la storia di una stella che accompagna ognuno di noi nella vita e che brilla di luce più intensa quando un’anima lascia questo mondo.
Quella sera dell’ estate del 1914, a molti anni di distanza da quel fatto, Luigi pensò che qualcuno era scomparso sulla terra e la sua stella si era accesa lassù.
Ma il punto luminoso continuava a tenere impegnata la sua attenzione e gli comunicava un triste presentimento.
E un’altra stella si sarebbe accesa tra poco, poi altre, a decine, a migliaia, a centinaia di migliaia, mentre una guerra che non trovava precedenti per violenza distruttiva ed estensione avrebbe aperto una voragine senza fine tra la gioventù di quegli anni. Nell’ora tarda le capitali europee continuavano ad essere impegnate nello scambio di messaggi drammatici.
“Voglio cercare la mia stella” disse egli sommessamente. Nello spazio del firmamento sarebbe stato difficile ritrovarsi in una stella qualsiasi; bisognava sceglierne una facilmente riconoscibile. A sinistra il profilo scuro del monte toglieva alla vista un piccolo angolo di ciclo e anche il mandorlo faceva la sua parte con la chioma folta, ma sotto le migliaia di punti luminosi di una limpida sera era sempre facile smarrirsi.
La sua attenzione fu attratta dalla Stella polare: quella sì che l’avrebbe ritrovata in un colpo d’occhio, ma era troppo grande!
Pensò che per un ragazzo di campagna come lui sarebbe stato un progetto troppo ambizioso prenderne possesso. Era sicuramente la stella di un re o di un papa. La lasciò da parte per questa ragione e ne cercò un’altra, scorrendo con lo sguardo lungo il timone del carro, giù fino alla ruota anteriore. La sua attenzione si fermò su questo punto: la sua stella sarebbe stata quella più vicina alla ruota. La guardò con tale intensità dopo averla individuata, che si sentì trasportato nel firmamento, immemore di essere sulla terra.
Quando il suo piede scivolò sul ciglio del prato, su cui stava disteso, temette di cadere nel vuoto e d’istinto allargò le braccia per riprendersi, mentre il cuore gli sussultava nel petto.
Il contatto col prato soffice lo rassicurò e lo riportò alla realtà: chissà quanto tempo era passato? Forse un’ora o anche più.
Si diresse verso la porta d’ingresso. Dalla cucina giungeva il brusio delle voci della mamma e delle zie impegnate a sbrigare le ultime faccende. Salì i gradini che conducevano nella stanza riservata allo zio don Pasquale per le sue visite a Ca’ Guercinello. Aveva il consenso di entrare lì dentro, come gli altri nipoti, per leggere qualche libro lasciato dallo zio a loro disposizione. Erano vite di santi, libri di narrativa, di storia e testi di scuola in uso nel seminario.
Luigi accese il lume a petrolio appeso alla trave, scelse dalla nicchia accanto al caminetto un libro già conosciuto sulla vita di Mazzini e si sedette al tavolo. Le voci della cucina giungevano come una gradita compagnia.
La copertina illustrata del libro metteva in evidenza la figura di Mazzini alta, solenne, con quello sguardo che andava lontano. Luigi avrebbe voluto assomigliargli anche fisicamen-te, ma col suo metro e sessantotto si sentiva meno alto. Chissà se almeno i lineamenti del volto, il colore dei capelli e degli occhi corrispondevano? Non poteva saperlo perché l’immagine era in bianco e nero e per giunta sbiadita dal tempo. Sollevò lo sguardo sulla specchiera, fissò il profilo deciso del suo volto, i suoi occhi con una punta di celeste e i suoi capelli castani.
Lesse per circa un’ora le pagine dedicate alla Giovane Italia e alla Giovane Europa. Quando si alzò, spense il lume, si avvicinò alla finestra per chiudere gli scuri.
Anche l’ultimo lume si spegneva laggiù nella valle.

Voci di guerra

A Urbania, alla fiera di san Luca e delle donne, tra tanta gente s’era sparsa la voce sulla possibilità di un intervento dell’Italia in guerra nello stesso mese di ottobre. Luigi sapeva che avrebbe ricevuto presto la cartolina di precetto e la prospettiva di una guerra che l’aspettava, gli produsse un certo turbamento, convinto pacifista qual era. Subito dopo però nell’incontro con gli amici dimenticò le sue preoccupazioni.
Pensava ancora a loro, mentre era di ritorno e percorreva a piedi il sentiero tracciato sulle orme dell’antica strada romana che saliva in direzione di San Giovanni in Ghiaiolo e di Urbino. Poi la comparsa di una pietra miliare sul ciglio del tracciato, lo portò a ricordare, chissà perché, le legioni romane e per associazione la guerra della quale si era parlato durante la fiera. Per poco non scordò l’orcio di coccio che al mattino aveva nascosto tra i cespugli e che al ritorno dalla fiera avrebbe dovuto riempire alla fonte dell’acqua salata del Montesanto.
Di sera, seduto davanti al camino, accanto al nonno che mondava i giunchi scelti per intrecciare il canestro delle uova, teneva sulle ginocchia un libro di storia: guerra dei cento anni, guerra dei trent’anni, guerra dei sette anni. Luigi si chiedeva perché gli uomini periodicamente si abbandonano agli istinti più irrazionali e si scontrano in guerre sempre più distruttive. Si interrogava ancora se il progresso era servito a qualcosa e se effettivamente c’era stato un progresso dell’umanità. Nel caso contrario, come poter frenare l’aggressività dell’uomo, la sua brama di potere, la sua sete di ricchezze, la sua intolleranza?
Mentre chiudeva le imposte della sua camera, era ancora turbato dai suoi pensieri, ma la limpidezza e la profondità del ciclo fitto di stelle e la luna che sorgeva dietro il colle dei Gualdi gli infusero un senso di dolce serenità. Anche il fruscio veloce del setaccio per vagliare la farina per il pane, mosso dalla mamma e dalla zia Agostina e la vista delle fascine per riscaldare il forno, allineate davanti alla loggia e sulle quali la luna allungava l’ombra del pino, gli portarono la speranza che tutto continuasse come prima e lo indussero a dormire tranquillo.
I genitori invece quella sera erano piuttosto agitati. La notizia della guerra sentita alla fiera, si era ficcata nella testa di Lorenzo come un chiodo e non lo lasciava un momento. Quando Francesca a mezzanotte lo raggiunse in camera, dopo aver predisposto la farina e il lievito per il pane, egli era ancora sveglio.
“Che cosa c’è che non va?” gli chiese con affettuosa premura.
“E” il pensiero di quel figlio che deve partire ” le rispose Lorenzo con un sospiro.
“Francesca gli propose di dire una preghiera, ma la stanchezza fu più forte e poco dopo le sue parole si persero in un respiro sempre più lungo e disteso.
Lorenzo invece, dopo un leggero dormiveglia si sentì più agitato di prima; si mosse allora per alzarsi, cercando di fare il minimo rumore sulle foglie di granturco del pagliericcio. In cucina accese il lume appeso alla mensola del camino, ma il fuoco spento aumentava la sua malinconia; decise di scendere nella stalla, passò accanto ai buoi distesi sulla paglia, li accarezzò uno ad uno e andò a sedersi sul mucchio di fieno, riprendendo a impagliare il piano della sedia non completato la sera precedente.
Dopo qualche tempo lo raggiunse Francesca: “Torna a letto” gli disse premurosa, e dopo averlo accompagnato in camera, “Ti raggiungo fra poco” gli promise.
In cucina prese uno zolfanello, lo affondò nella cenere del camino a trovare un tizzone ancora acceso e proteggendo col palmo della mano l’incerta luce azzurrognola, si fece strada sulla scala che portava nella stanza del telaio.
Era l’alba, quando Luigi trovò la mamma che, alla luce fioca di una candela, girava lentamente la ruota del mulinello a dipanare la matassa dell’accia.
La fiamma palpitava sul candeliere e si stava affievolendo sugli ultimi resti di cera. Luigi cercò di raddrizzare lo stoppino col bastoncino dello zolfanello. La fiamma riprese vigore e proiettò sulla parete l’ombra della ruota del mulinello, facendolo sembrare grande quanto le pale di un mulino a vento.
“Perché mamma non sei a letto?” le disse.
“Non riuscivo più a dormire” rispose ella, cercando inutilmente di nascondere la preoccupazione che aveva per lui.
“Se vuoi andare a messa, ti accompagno” disse Luigi.
“Ti ringrazio; vado a chiamare le altre” e ripose nel cesto i I usi del telaio.
Luigi si avvicinò alla finestra. Il ciclo quella mattina tardavi) a farsi chiaro. Sembrava che il tempo minacciasse di fare tempesta. Nella vallata le luci delle lanterne si accendevano qua e là sui sentieri delle case e si avviavano tremule sulla strada della chiesa.

***

Dal libro Sulla frontiera della Vertojbica di Alberto Calavalle, recensito da Nicla Morletti nel Portale Manuale di Mari.

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Alberto Calavalle

ALBERTO CALAVALLE è nato ed è residente in Urbino.
E’ stato docente di Letteratura Italiana e Storia negli istituti superiori e collaboratore didattico presso l’Università degli Studi di Urbino. Ha collaborato ai servizi giornalistici della sede RAI di Ancona. Scrive su alcuni periodici ed è impegnato nel sociale. E’ redattore della rivista semestrale di letteratura, arte, musica, scienza “VivArte”.
Ha pubblicato: Una “plaquette” di poesie con un’acquaforte dell’incisore Adriano Calavalle (Natale 1990).
Il libro di racconti “Il tempo dei cavalli” (Guaraldi 1993), ristampato in due edizioni dell’Istituto Statale d’Arte – Scuola del Libro di Urbino, 1997, con incisioni originali degli allievi.
Il romanzo “Sulla frontiera della Vertojbica”, Teramo, Editoriale Eco, 1997.
Il libro di poesie “Infinito passato”, Urbino, Quattroventi, 2000.
Il libro di saggi e racconti brevi “Finestre sulla città”, Urbino 2003.
Il libro di narrativa “Racconti urbinati” Ed. Quattroventi 2007.

5 COMMENTS

  1. Delle descrizioni stupende, mi sembra di sentirlo il profumo del fieno appena tagliato e tanti ricordi mi ha riportato alla mente.

    Un racconto che trasmette emozioni e ci riporta ad un periodo storico doloroso.
    Complimenti all’autore, spero di poter assaporare per bene l’intero racconto.

    Stefania C.

  2. Stupendi scorci di vita rurale fatta di fatiche e di tante piccole cose, dove c’è grande importanza per la famiglia e dove la più grande prospettiva è quella di vivere serenamente.
    Purtroppo questa serenità è poi stata turbata dalla guerra e dal racconto si nota come nei protagonosti ci sia un terribile presagio di sventura e morte, infatti la guerra porterà alla catastrofe.
    Trovo ben strutturata questa parte leggibile del racconto e credo che anche la parte restante sia molto interessante, sicuramente da leggere e da meditare per il profondo senso di vita che trasmette.

  3. Gentile Alberto,
    Non è retorica affermare che la guerra è ingiusta. Ciò che fa più male è il senso di morte che invade il quotidiano, le piccole cose semplici, ma preziose.
    La Sua descrizione così ricca di particolari, prima del paesaggio e dopo della dimora di Luigi, è fenomenale: talmente perfetta che, man mano che leggevo, tutto mi si materializzava intorno.
    Grazie al Cielo, ho avuto il privilegio di conoscere e di poter trascorrere un po’ di tempo con i miei bisnonni: come era bello stare tutti insieme nella grande cucina, in cui la faceva da padrone l’immenso caminetto in pietra, vicino al quale, anche il mio nonnetto con le sue abili mani creava dal nulla e con una rapidità da record, cestini di vimini di ogni forma e dimensione(ancora li custodisco gelosamente).
    Anche lì,la stanza da bagno era collocata all’esterno del casale, in una stanza attigua (e questo per me era così strano!).
    In tutta la casa c’era un tale profumo di frutta secca, spezie varie, legna del camino e lavanda che mia nonna adagiava in ogni cassetto, da far perdere dolcemente i sensi. Che dire poi, dell’aia da cui si godeva una spettacolare vista sul mare.
    Non c’era la televisione, non c’era la radio né tantomeno il telefono: un piacevole isolamento dal mondo.
    Tutto lì era perfetto, e gli orrori della guerra erano passati da un bel po’.
    Posso solo immaginare lo strazio del giovane Luigi e dei suoi famigliari, nel sentir minacciato il loro piccolo e prezioso microcosmo.
    Spero tanto di poter leggere l’intero romanzo.
    Le faccio tanti COMPLIMENTI, di vero cuore!
    Un caro saluto,
    Maria Grazia P.

  4. Ciò che mi ha colpito nel leggere la prima parte del romanzo è la freschezza nella descrizione del paesaggio, immagini che ti fanno assaporare la lettura e la rendono accattivante e piacevole.
    Lia

  5. ” Quell’inutile strage ” – come defini’ Benedetto XV la prima guerra mondiale – provoco’ un ecatombe e preparo’ – dopo pochi anni – l’avvento del fascismo.
    Nel conflitto 1915-18, sul versante italiano morirono in 650.000, 947.000 furono i feriti, e 947.000 i prigionieri e i dispersi. In totale s’ebbe una mobilitazione di 5.615.000 uomini.
    Aride cifre che nascondono, per ciascun protagonista, drammi interiori e famigliari. Quella “carna da macello” erano persone irreplicabili : tutte con un cuore e un’ anima. E tutte rivestite di speranze e di angosce.
    A Vertojbica, Luigi cade, e si rialza in ognuno di noi l’orrore per le armi.
    Mistero della vita : si nasce, ci si irrobustisce per immolarsi – forzatamente – al massacro.
    Nei moltissimi Luigi – frantumati dal 1915 al 1918 – sta l’ enigma dell’esistenza. E, piu’ in profondo, il perche’ della malvagita’ umana da una parte e dell’ eroismo – a volte ineluttabile – dall’ altra.

    Gaetano

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