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Angeli caduti di Beppe Iannozzi

La morte con i tuoi occhi

Quella doveva essere una serata uguale a tante altre, la solita monotonia.
Il crepuscolo, un grande occhio nero proiettato nell’infinito; a Max niente avrebbe cambiato la sua umile brutale esistenza… Ormai era certo che sarebbe invecchiato senza combinare nulla di buono nella vita. Con le donne non ci sapeva fare: gli amici gli avevano appiccicato addosso il triste destino d’esser un misogino, un destino che lui ricusava con violenta impotenza pur riconoscendo nell’intimità sessuale che quel destino era la sua vera natura. Non rare erano le volte che si provocava scarificazioni di ogni tipo, giusto per sentire che ancora era vivo; e non di rado la sua frustrazione finiva in eccessi di violenza gratuita contro la sorella. Per un nonnulla l’accusava d’esser una zambraccia: bastava che si pittasse con un po’ di rossetto perché Max montasse su tutte le furie; ed allora volavano schiaffi, e le lagrime di lei si consumavano nei singulti, nel silenzio della sua camera. Simili scenate di gelosia, quasi incestuosa, avevano luogo soprattutto alla sera quando Max sentiva opprimente il peso d’una solitudine non voluta: il telefono non squillava mai per lui e questo fatto lo faceva andare in bestia. Odiava la sorella che si preparava per uscire: dentro di sé sentiva pulsione di farle del male, di possederla in qualche modo, e se non fosse stato per la moralità cattolica, che suo malgrado nutriva in seno, le sarebbe saltato addosso per darle il fatto suo. Poi la rabbia scemava e la debolezza lo faceva prigione della sua verginità. Sbattendo la porta della camera di sua sorella, Max trovava rifugio davanti alla finestra, cercando indarno di rattenere le lagrime. Nella mente mille immagini si sovrapponevano in una confusione che non poteva non scatenargli una forte emicrania nervosa: non negava a sé stesso d’aver paura della sua natura tanto fragile, e l’apparente quiete del cielo spiato attraverso il vetro macchiato dal fumo di città era per lui un’ulteriore conferma che l’essere umano era soltanto un errore biologico prodotto e riprodotto nel corso dei secoli.
La notte, come negro sudario, l’avvolgeva e Max si buttava sul letto: il peso morto del suo corpo lo spaventava, ma in un certo senso era piacevole sapere che, da un momento all’altro, un qualsiasi inopinabile evento avrebbe potuto porre fine alla sua vita, magari a quella di tutto il genere umano.
Sul giradischi lasciava che i vecchi 33 giri dei Doors esplodessero nel loro lamento; ogni tanto compulsava le poesie di Arthur Rimbaud, un libro ormai consunto, l’unico che aveva in casa e che il padre gli aveva lasciato prima di andarsene per sempre con la nuova compagna. Odiava Rimbaud, quello spirito ribelle che per narcisismo paragonava a sé stesso; guardandosi allo specchio trovava che anche lui era un angelo caduto. E la fantasia gli suggeriva che, da qualche parte nel mondo, forse, esisteva un gemello per ogni uomo di questa Terra. Poi la musica  cessava  e  Max  usciva:  prendeva  la  vecchia Cinquecento rossa che il padre gli aveva lasciato e lasciava che il traffico torinese ingolfasse anche la sua anima.

* * *

“Allora che facciamo?”, gli chiedeva Dario, un tipo in carne, rubizzo, sempre con un cachinno e la battutina acida pronta, a bruciapelo, fosse o meno l’occasione adatta per scherzi fra amici.
Max non si scomponeva: da troppo tempo era avvezzo a questa accoglienza e se non oggi, domani si sarebbe risolto a lasciar naufragare l’amicizia che teneva con Dario, quell’amicizia che tanto tempo addietro Max aveva tradotto in una sorta di privata amicizia adatta a un confessionale. Alzava le spalle, poi bofonchiava il nome d’un locale e partivano in silenzio. Entrambi non avevano più niente da dirsi: le loro conversazioni erano frammenti di vetro, bagliori di lucida cattiveria reciproca; e quando parlavano era più per abitudine che non per naturale necessità di stabilire un  contatto umano. Parlavano soprattutto di motori: la tecnica e i principi fisici che fanno funzionare le macchine erano diventati l’interesse principale di Max, che nella fisica, nelle macchine, sperava di trovare una risposta ai suoi dubbi esistenziali. Dario gli dava corda, sin troppa: si prendeva gioco  della sua depressione; tuttavia Max pure a questa cattiveria s’era ormai abituato da tempo. Premeva  sull’acceleratore, senza quasi far caso alla segnaletica stradale, convinto che la morte non lo avrebbe preso di certo incastrando le sue carni in una scassata Cinquecento, un motore che conosceva come le sue tasche e sul quale aveva lavorato più d’una notte.
“Andiamo a beccare Andrea?”
Dario sbuffava, Andrea non gli piaceva; riteneva che fosse un intellettualoide noioso.
“Lui c’ha i soldi… Gli si scrocca qualcosa. Non c’è neanche bisogno di chiederglielo. È lui a farsi avanti: credo che provi una sorta di piacere masochistico a farsi svuotare le tasche”, diceva allora Max per convincere Dario.
Le serate si risolvevano in una noia assoluta: intorno a mezzanotte  Dario s’alzava, ingollava  quel  che rimaneva della sua birra e si congedava. In un modo o nell’altro riusciva sempre a tornarsene a casa da solo: “Non preoccupatevi per me. Con calma torno a casa e mi sparo un pornazzo!” Non diceva altro: stringeva la mano a Max e ad Andrea e si defilava inghiottito dalla notte.
“Non esiste più l’amicizia”, attaccava allora Max. Rimaneva pensoso qualche attimo, perso a fissare una delle tante ragazze indaffarate a servire i clienti che stavano dietro al bancone, poi sospirava.
Andrea era tipo che non si scomponeva per simili constatazioni; anche lui aveva finito col fare il callo alla depressione dell’amico e non aveva alcuna intenzione di farlo inalberare. Si accendeva una sigaretta e rimaneva quasi sempre in silenzio sicuro che Max avrebbe cominciato a confessarsi. E ogni sera le parole erano uguali a quelle dell’ultima volta, un rito.
“Cosa vuoi che ti dica? Si nasce, si vive e si muore da soli: è l’esistenzialismo. O se preferisci è la vita, punto e basta.”
Max rimaneva sempre scontento da questa risposta troppo filosofica per lui: “Cazzate! Preferisco un motore su cui metter le mani. Almeno quello sai come funziona, e se non lo sai ti ingegni da solo a capire.”
Andrea a questa replica si lisciava i baffi, rispondendogli che la vita è la vita, la poesia una puttana vergine per catturare unicorni, mentre i motori roba inventata dagli uomini, quindi comprensibili avendo le dovute conoscenze tecniche. Non era sua intenzione smontarlo, però si rendeva conto che in un certo qual modo lo deludeva: l’amico gli chiedeva una risposta alla vita e lui gli sfasciava la testa con ragionamenti filosofici e poetici, che alla fine si concretizzavano in un cazzo di nulla. Allora, quasi per scusarsi, Andrea aggiungeva: “È un serpente che si morde la coda, di più non so.” E la questione su cosa fosse la vita finiva lì, almeno per il momento.

Angeli caduti di Giuseppe Iannozzi – Cicorivolta Edizioni, 2012 – pag. 230

Il commento di NICLA MORLETTI

La scrittura di Giuseppe Iannozzi è eloquente, limpida, moderna. La prosa di chi ha dimistichezza e scioltezza con la parola e l’uso della lingua italiana. Ben tratteggiata e delineata è anche la psicologia dei personaggi con le loro pulsioni ed emozioni. Una scrittura autentica e genuina nello scorrere degli eventi e delle passioni dunque, quella che caratterizza il romanzo “Angeli caduti” di Iannozzi.
Max, il protagonista,  a sera, si butta sul letto: sul giradischi lascia che i vecchi 33 giri dei Doors espoldano nel loro lamento. Poi legge le poesie di Arthur Rimbaud. Si tratta di un libro che suo padre gli ha lasciato prima di andarsene per sempre con la sua nuova compagna. Ed anche Max, come Rimbaud, si considera un angelo caduto. Ma gli angeli, dico io, brillano sempre di luce propria, anche quelli caduti. Ottimo lo stile, ottimo il libro. Da leggere sicuramente.

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