L’incontro –
1937. La primavera –
Avevo otto anni quando incontrai Raoul, per caso; era il soggetto, l’artefice di quello che io guardavo, il suo lavoro.
Un lavoro umile – spaccava i sassi ! -, per renderli assimilabili alla massicciata che si sarebbe formata e consolidata col passare dei carri.
Senza darlo a vedere si era accorto della mia presenza e dimostrava di accettarla. Fu mio l’imbarazzo e mi venne di giustificarmi cercando di dire qualcosa. Mi fece giuoco, nel momento in cui avvicinava a sé i sassi, un suono che veniva da poco lontano: un ripetitivo croh, croh, inconsueto. “Cos’è questo rumore” dissi, “l’è il fagiano” rispose. “Non so cos’è…” e lui “…selvaggina!”; “ne so quant’e pprima…”, aggiunsi. Il ghiaccio era rotto, ma non significava aver superato la distanza che l’umana deferenza metteva fra me e quel signore che, seduto per terra, a gambe larghe, spaccava i sassi. Quando avvicinò di nuovo un mucchietto, approfittando dell’interruzione dei colpi, mi domandò di chi ero, risposi con il cognome e disse “…ah”, come avesse capito. Lì, a quel tempo, era già una presentazione. Più tardi, quello che scaricava i sassi lo chiamò, allora seppi che il suo nome era Raoul.
C’era un’altra attrattiva da quelle parti che di lì a poco avrebbe preso il sopravvento: La Parata.
Era un fiume anche se un cartello lo definiva torrente; scorreva con un’acqua limpida e profumata. S’incontrava poco fuori città, cinque minuti di bicicletta e già era piena campagna. Formava delle piccole chiuse dove tutto l’anno le donne lavavano i panni sbattendoli contro trovanti di pietra che nel magico giugno servivano ai ragazzi per tuffarsi. L’acqua arrivava al ginocchio, ma era sufficiente per magnificare le più “spericolate” immersioni ed emozioni balneari. Non era vietato bagnarsi, ma di fatto lo era perché fra quei nudi innocenti ce n’era qualcuno più grandicello che se non offendeva proprio il pudore (erano sempre tutti maschietti), faceva un po’ la differenza. Così l’arrivo della “Pula”, la guardia municipale, completava il quadro con il fuggi fuggi nell’altra sponda, verso i campi, con i panni in mano. Fu proprio Raoul, che lavorava lì, sulla strada, a farmi notare il senso di quell’intervento repressivo in nome di un “ordine” che proprio con lui doveva diventare oggetto di animato dialogo per una vita intera.
Raoul, l’uomo di cui mi accingo a raccontare la storia, ha oggi 77 anni, un anziano ben portante dai lineamenti omologati alle pietre che ha trattato per una vita, austero e disponibile con un sorriso profondo di età e di saggezza. Quel ragazzo di tanti anni fa ha fatto della vita la sua arma migliore usandola con profitto per sé e per gli altri. Oggi non lavora più con le mani; le doti del suo cuore e della sua amabilità lo hanno trasformato per me nel mio migliore amico, per se stesso e per chi ha la ventura di incontrarlo in un uomo che vale la pena di ascoltare.
Sorprendente la linearità della sua esistenza, nella quale, in tutti i momenti non è mai stato né il genio, né il super uomo, ma sempre un soggetto normale. Certo, di alcune qualità occorre fargli credito: il buon senso, l’assoluta mancanza di presunzione e poi due specialmente, una volontà ferrea che tale si palesa specie quando i risultati sono lontani e faticosi e, prima fra tutte, la saggezza, dono di cui la natura gratifica solo certi individui, perché non arriva a caso, si costruisce con il sacrificio e la buona disponibilità a tollerarlo.
La seconda volta che parlai con Raoul, fu proprio uno di quei giorni che andavo a vedere i ragazzi al bagno. Io non lo facevo, anche se morivo dal desiderio. Mi avvicinai a Raoul in un momento di distacco dai bagnanti e siccome ci eravamo già rivolti la parola, dissi “buongiorno”.
E necessario ricordare che i rapporti sociali di allora, molto diversi dalla mistura attuale che ha trasformato il concetto di dignità in arroganza, erano solidi e inderogabili, chiari, condivisi perché sostenuti da considerazione e rispetto. Tutto – cose, vantaggi e reputazione – a qualunque strato sociale appartenessi, dovevi conquistartelo e meritartelo. C’era, nelle differenze, una sorda uguaglianza cui tutti avevano il diritto di accedere: lasciapassare era il rispetto umano.
Raoul rispose al saluto a suo modo, annuì col capo e mi rivolse appena un sorriso a bocca stretta accompagnata da un’occhiata che mi è rimasta impressa. Intendeva dire che, se non avessi sgarrato, poteva andare. La conferma un attimo dopo, mentre interrompeva con il martello per avvicinarsi il mucchietto disse: “…ma lei a scuola ci va?”, “si, faccio la quarta!”. “Ah… bravo!”. Con questo apprezzamento finì il nostro secondo incontro, con un sorriso, come nei temi di allora “…felici e contenti di…”. In effetti quell’interessamento alla mia persona da parte di chi riscuoteva il mio, suonò al di fuori dei miei ambienti, scuola, compagni e famiglia, come una piccola complicità dalla quale ricavavo un senso di crescita, di autonomia, che mi lasciava contento e sentivo di dovermela tenere per me. Erano forse i sintomi della nascita dell’amicizia, uno dei sentimenti più alti proprio perché ne sono poco riconoscibili le cause dell’insorgere e si alimentano anche a distanza di anni, dopo lunghi periodi di assenza.
Complice di quella partecipazione il giugno inoltrato, la scuola finita, la passeggiata libera in bicicletta, i ragazzi alla “Parata”, gli odori della campagna che, all’apparenza normale, risvegliano tutte le migliori attitudini di cui la primavera è mezzana. Non mi rendevo conto, ma con certezza ero parte di quella primavera. E anche Raoul.
L’incontro con Raoul non significava conoscerlo, tanto meno poterlo praticare. Il problema della conoscenza fu presto colmato quando la cosa trovò una via ufficiale, perché le nuove identità annullavano quell’innocente segreto legame, sorpassandolo. Di fatto però si chiarirono le posizioni per cui se mia madre mi avesse visto fermo attorno a Raoul non mi avrebbe più fulminato con un “cosa fai lì… vieni via!”.
Lo scenario in cui si svolse il rito della conoscenza è quello della motivazione delle presenze in una società tradizionale e ottocentesca, ma già toccata da inquietudini di riscatto dalla esasperazione delle differenze e in attesa di un futuro imminente e incombente. Il futuro era rappresentato dall’imprescindibile avvento della crisi, della crescita, dell’entusiasmo e del conseguente incauto ottimismo. Purtroppo questo superamento costò vicende drammatiche, ma era ciò che i tempi proponevano e a quelli non si sfugge.
Prima di quegli eventi che hanno sconvolto il mondo, da noi si viveva un periodo di assestamento post-risorgimentale con autentica pacificazione degli animi, intesa come reciproca comprensione, accettazione di pur esistenti squilibri economici, riconoscimento di un diritto e professione di dignità di cui lo stato sociale si proponeva come garante. Questo è il senso dello stato dell’ordine di allora, perché alcune manifestazioni di intolleranza erano marginali, fastidiose e invadenti, ma solo in superficie. Gli animi erano liberi, liberi nelle loro convinzioni di fondo e quindi sereni nella pienezza e consapevolezza dei ruoli di ciascuno. Un’Italietta tutto sommato pulita e ordinata nelle persone, invidiata da tutti, anche se gli eventi hanno dimostrato di non essere preparata per i tempi tremendi che si paravano all’orizzonte: “la guerra e dintorni”… ! Ma l’Italia poteva non esserne coinvolta? 1 cinquanta anni successivi hanno dimostrato che i portatori di quegli eventi nel mondo non eravamo noi!
I cosiddetti cattivi, l’Italia, la Germania, il Giappone, battuti sul campo di battaglia, distrutti e mortificati nello spirito, annientati economicamente, dopo un ragionevole periodo di recupero hanno riacquistato una posizione determinante nelle istituzioni, nell’economia, nella politica e, quel che più conta, nel prestigio. Ciò non solo riconosce e assegna a questi paesi il diritto al riconoscimento di un primato storico sociale assoluto, nonostante le esigue entità territoriali, ma motiva l’avversione che altre collettività hanno nutrito e che per storielle prevaricazioni hanno preteso esercitare, appunto con la guerra. Il tutto in nome di un frainteso senso democratico, ben attento ai propri confini economici e in relazione a determinati scopi. La regola? “O fai come dico io… o fai come dico io”. Non vorrei far torto a Raoul, che in dieci lustri di conversazioni ha dimostrato la capacità di superare il significato degli eventi che si esaltano e si spengono nella cronaca e di arrivare al nocciolo del problema, che la storia spesso separa con decenni rimandandone, quando possibile, la lettura.
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Dal libro Raoul di Giorgio Panero.