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Quelle strane note del Leoncavallo di F. P. Percoco

Trattengo tra le dita una piccola rosa appassita, schiacciata tra le pagine di un quaderno a righe scritto con inchiostro ormai marroncino: il fiore sembra conservare gelosamente i suoi ricordi, con i petali ancora scarlatti che s’intrecciano con uno sfilacciato nastrino di seta rossa un tempo avvolto intorno al gambo ormai minutissima polvere. Frammenti fragilissimi di un amore che doveva essere stato grandissimo, ritrovati casualmente in un cassetto di una scrivania americana del primo ‘900, ma mai ricercati perché ne ignoravo l’esistenza.
Avrò aperto e rovistato in questo cassetto mille volte, rimestato tra le sue carte altre mille volte, sbirciato tra caleidoscopi e binocoli di cartoncino, bussole, rotelle conta passi, piccoli pesi di vecchie bilance, minuscoli block notes con disegnate, ora a penna ora matita, con o senza pentagramma, note su note musicali, foglietti volanti con una scrittura criptica che mai sono riuscito a decifrare.
Solo ora guardo con tenerezza questa nuvola di bambagia ingiallita e diradata, che apro con attenta tenerezza, racchiusa tra le pagine riempite con una calligrafia impossibile sino all’inverosimile, dove il batuffolo si è rincantucciato per tanti anni.
Nulla di più potevo aspettarmi se non l’immagine di mio nonno e della tante cose che si divertiva a raccontare così come gli erano accadute.
Le pagine di questo quadernetto sono ora per me come la cassetta di un film, un magnifico film che proietto nella mente mentre scorro i fogli bruniti.
“Libro di Memorie — Ricordo” e, più giù sotto, un ‘immagine a rilievo che raffigura una lira formata da violette intrecciate a un mirto ancora oggi verdissimo, con tre corde dorate tuttora come ieri, ormai cent’anni or sono, e tra esse un “t’amo” scritto in minutissima grafia che una volta scoperto e letto appare alla mente come un enorme manifesto.
Portandomi questo quaderno sul petto, guardo il cielo dove le nuvole, spinte dal vento dolce, s’intrecciano e si diradano come bambagia sgranata ed ecco che mi pare che dalla rosa evapori, come un effluvio, una figura che si forma e si dissolve, si riforma e si scioglie ancora, disegnando un signore vestito inappuntabilmente, con le due punte di un bianchissimo fazzoletto che sbirciano dal taschino della giacca, un sottile bastone da passeggio ancorato sul gomito; un artista tormentato dalla musica, signorile, sottilmente arguto, se vogliamo, stravagante ma piacevolmente gradito a chi gli era intorno.
Sul quaderno è scritta una data: a Sava, 9 Gennaio 1889, ma il diario parte con la narrazione da Francavilla Fontana nel Settembre dello stesso anno.

Finito, con eccellenti risultati, il liceo a Ostuni, spinto dalla passione per la musica che sembrava endemica in ogni componente della mia famiglia, chiesi a mio padre, Fortunato, di poter continuare ad approfondire il mio approccio con la dolce musa delle sette note. Questo voleva dire chiedergli di andare sino a Napoli posto che solo lì vi erano alte scuole e posto che, in quel tempo, oltre Napoli, che godeva dei privilegi di essere stata, bene o male, una capitale, non vi era nulla.
Dopo l’esperienza dei miei due fratelli maggiori, Peppino e Raffaele, che mandati a Parigi tornarono con molta arte ma poco mestiere, mio padre tentennò non poco prima di concedere anche a me il permesso di lasciare la ricca campagna che avevamo a Francavilla per tentare la sorte in altri lidi.
Ma fu proprio la condivisa passione per la grande musica che convinse il mio genitore dallo sguardo sempre severo reso, più cupo dai lunghi basettoni che gli incorniciavano il viso fin quasi al mento.
Sì, studiare bene significava andare dove si faceva cultura e si coltivavano i musicisti del domani.
Il forte desiderio di avere intorno chi faceva e chi suonava musica a livelli professionistici costrinse il mio burbero genitore a consentirmi di lasciare il mio paese, grave e sonnacchioso, per migliorare il mio sapere musicale in un centro dove le scuole fossero di altissima qualità: egli si mise a sognare e, sognando, immaginò che almeno uno dei suoi figli sarebbe diventato un grande compositore… Mascagni… Puccini… Boito e visto che gli altri figli non pareva che riuscissero nell’intento, non gli restava che tentare con me che ero l’ultimo nato.
Mi chiamò, quindi, un giorno di settembre, prima di pranzo sul terrazzino assolato posto a mezzogiorno, mentre le donne di casa si affaccendavano, aprendo e schiudendo ripetutamente la finestra avendo cura di mantenere gli scuri chiusi per mantenere la stanza da pranzo in una penombra di frescura.
La sala era squarciata da lampi di luce accecante che fiondavano improvvisamente all’interno per attirare verso Tortale le avide ed appiccicosissime mosche della vendemmia che venivano spinte fuori dai grembiuli agitati con ritmo sapiente.
Duro in volto e guardandomi fissamente don Fortunato Cavallo, aggiustandosi l’eterno scollino blu, mi disse:
“I tuoi fratelli in appena quattro giorni arrivarono a Parigi ma poi, dopo gli studi, per tornare a casa hanno impiegato anni. Ora non si muoveranno più e amministreranno con me la proprietà; loro la musica se la faranno a casa e se vorranno ascoltarla durante le esecuzioni, se la canteranno e se la suoneranno da soli o, al massimo, sentiranno la banda del paese nella cassarmonica in piazza…
Tu, però… da te voglio    ” s’interruppe come folgorato fissando il muro tinteggiato a biacca dove il sole penetrando in un anfratto dell’intonaco ombreggiato dalla
pergola, aveva disegnato ombre tremolanti.
“Mascagni, vedi?”
“Dove?” Chiesi sorpreso.
“Là, là sul muro.”
“Mascagni sul muro!?”
“Il profilo di Mascagni, non lo vedi?”
“Ah, sì….mi pare.”
“Oòh Ercolì! Come mi pare? E’ lui… è apparso come le ombre cinesi.”
Nel frattempo la pergola, con la complicità del sole, quasi comprendendo il mio patema d’animo, aveva cambiato lo scenario sul muro bianco illuminato dove ora un grosso geco arrivato da chi sa dove, se stava pacione sul muro sotto il sole ancora cocente e senza alcuna cautela, e pareva molto interessato a quel che stava dicendo mio padre.
“Papà, io non vedo niente se non una ributtante lucertolaccia da muro.”
“E per forza, tu sei moscio! Ora non c’è più.”
“Se ne è andato… Mascagni?!” esclamai timidamente, immediatamente pentendomi di averlo detto.
Mio padre, per mia buona sorte, non aveva capito o sapientemente fece finta di non capire; si avvicinò al muro quasi accarezzandolo ed emise un profondo sospiro: “Mascagni!” continuò come in trance: ” Sì, proprio voglio che tu diventi un nuovo Mascagni o anche… un Donizetti.” La lucertola, spaventata dall’avvicinarsi delle mani di mio padre che accarezzava il muro, schizzò in un attimo verso l’ignoto.
Mi raggelai nel caldo settembrino e non osai dire parola alcuna, rincuorato dagli occhi di mia madre Annunziata che ci aveva raggiunti per invitarci a tavola e che sembrava nata per addolcire il mio genitore.
“Pasta e rape si freddano e se aspettiamo ancora un po’ non saranno più buone.” intervenne la Tata.
“Né Mascagni né Donizetti e neanche César Frank che adoro, ma te stesso.” Disse mia madre che guardava alternativamente ora me ora il marito facendo ondeggiare i penduli orecchini che portava perennemente, il cui dondolio mi aveva sempre incantato sin da bambino.
“Lui, il Maestro Mascagni, è diventato grande perché ha partecipato al concorso Sonzogno e aveva appoggi del conte Florestano di Larderel, lo sanno tutti.” suggerì mio fratello Peppino che se ne stava in disparte.
“Perché tu non potevi partecipare?” Gli rispose duro mio padre puntandogli il dito indice sul petto come fosse uno schioppo.
“Anche se lo avessi potuto fare…. a che prò, visto che dietro di me non ci sarebbe stato nessun conte.” Fu la riposta di mio fratello.
“Lui a venticinque anni è già famoso!!” disse mio padre con un crudo tono di voce che faceva sembrare ogni parola un macigno da lapidazione.
L’andamento del discorso andava facendosi assai scabroso e mia madre intervenne provvidenzialmente:
“Ercolino, tu ci devi dare la tua musica: te stesso. Venite, ora andiamo a tavola.”
“Sì, ma non a Parigi dove ci sono solo scompiglio e tumulto : esposizioni, funzioni di Babel..(!) Gran balli, Can Can, donnette e donnacce e strani figuri trasandati, barbuti e astrusi che si fanno chiamare artisti. Artisti! Poveracci che imbrattano tele o strimpellano note senza assonanza per sbarcare il magro lunario. Di che arte poi?! Pittori, puah! Quadri? Puah! Macchie, solo macchie. Musicisti? Saltimbanchi direi! Ma i musicisti sono ben altro!

***

Dal libro Quelle strane note del Leoncavallo di Francesco Paolo Percoco, recensito da Nicla Morletti nel Portale Manuale di Mari.

Vuoi sfogliare le pagine di questo libro e leggere i primi capitoli? Clicca sull’immagine dell’ebook qui sotto. Se ti colleghi con un terminale mobile CLICCA QUI.

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