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Hola Pelacodes di Claudio Roncaccioli

Un respiro profondo per annusare intensamente l’aria; non importa se sa di smog, di cibi o bevande calde takeway, o è solo l’alone puzzolente della sigaretta senza filtro di un passante. Per me Londra è l’inebriante profumo della libertà che ti prende solo per il fatto di trovarti nel cuore di una metropoli immensa, senza confini precisi, dove nessuno ti conosce e nessuno conosci; la consapevolezza del tempo che non c’è, di giorni che perdono il loro nome che si trasforma in droga per la vita.
Ma attenzione: i bagni degli hotel sono, tutti, privi di bidet e, per un italiano non abituato a viaggiare il mondo,  la prima volta è un dramma, perché te ne accorgi solo dopo averla fatta (perdonate la franchezza). Ed è il panico: ti metti a girare mezzo nudo(a), prima in bagno  e poi in camera, con un paio di fogli di carta igienica appiccicati nel mezzo dei glutei, alla disperata ricerca del bidet che non c’è. L’istinto è quello di chiamare la reception e chiedere spiegazioni.
Fratello devi scegliere: o ti  fai una doccia come si deve, e ti sputtani almeno mezz’ora del tuo preziosissimo tempo rischiando di arrivare tardi al museo; oppure ti rassegni a tenerti le croste sul culo. E’ lo stile british. Ma stai tranquillo: al museo troverai sicuramente una colonna in cui, con discrezione senza che nessuno ti veda, tranne il corpo di guardia che vigila con l’ausilio di telecamere in ogni angolo, potrai ristorare l’insopportabile prurito. All’uscita il guardiano ti sorriderà: trattieni il tuo istinto italico di sputargli in un occhio e saluta gentilmente.
Gli alberghi di categoria inferiore, meno lussuosi ma egualmente dignitosi, hanno l’apertura della finestra della camera a scorrimento verticale. Un vero flagello per il turista curioso che rischia una botta da orbi non appena si affaccia  per scrutare oltre il davanzale. Il serramento, proprio in quell’istante, per un diabolico sortilegio, si chiuderà improvvisamente impattando il cranio del malcapitato. Avete presente i cartoni animati: stessa scena!

Ho un problema: non conosco l’inglese.
Probabilmente è una colpa e quando il lavoro mi porta nel Regno Unito, durante il tempo libero il disagio lo avverto e me ne vergogno, consapevole che gli inglesi hanno la pessima abitudine di farti sentire una merda. Basta non farci caso ed usare la stessa moneta di cambio.
Alcune cose ovviamente  le ho imparate e quindi il giro tra le  chincaglierie dei banchi di Portobello Road a chiedere quanto costa senza però capire la risposta (di solito me la cavo con un Ah), la visita alla National Gallery o  al British Museum e la tappa fissa  al Bibendum Oyster Bar. 81, Fulham Road, per una dozzina di Fine de Claire della Bretagna, sapore metallico e profumo pulito e buono del freddo oceano, ormai sono irrinunciabile consuetudine.
Nei momenti di difficoltà ho imparato a speculare sul fatto che a Londra la comunità italiana è di oltre 500.000 persone e di conseguenza le informazioni indispensabili in qualche maniera sono quasi sempre riuscito ad estorcerle.
Quasi.
Capitò, appena uscito da Harrods, di chiedere ad un edicolante,  abbino pena di me i cultori delle lingue anglosassoni,  dove si trovasse una “steik house”, che ricordavo aver intravisto nella zona qualche ora prima. L’uomo iniziò a scrutarmi come fossi il pupazzo di E.T. l’extraterrestre e mi interrogò su cosa fosse una steik house. Gli spiegai che era un locale dove mangiare del buon filetto irlandese grosso tre dita e possibilmente non di mucca pazza, giusto per non cadere sempre nel solito fish and cips di mezzogiorno, che ormai cominciava ad uscirmi dagli occhi.
Mi guardò ancora da capo a piedi e poi, come un professore di Oxford rivolto all’allievo somaro, con tremendi movimenti labiali e di tutta la muscolatura del volto ed occhi spalancati a puntare i miei, urlò:
-Sir, Steak house, not steik house, steak house please.
Contemporaneamente col dito mi indicò il locale, una trentina di metri più in là sul marciapiede opposto di Knightsbridge.
Eh … si mangia bene?
Sorry?
Sorry na’ sega!
Ovviamente non capì;  mi congedai allargando la bocca in un sorriso muto di circostanza ed auspicando un giorno di incontrarlo per le strade di Vicenza, piegato dai crampi della fame, alla disperata ricerca di un buco dove mangiare un buon piatto di spaghetti.
Mi infilai le cuffiette ed a tutto volume feci partire l’adorato inno dei miei vent’anni: J. Paul Young, Love is in the air.
Il rischio più grosso lo corsi all’aeroporto di Heatrow al metal detector. Durante il mio passaggio l’allarme sibilò. Avevo vuotato le tasche dalle monete e dalle chiavi, riposto il cellulare e quant’altro con appendici metalliche nel cestello, ero certo di avere prestato massima attenzione, consapevole che negli aeroporti inglesi i controlli sono di una severità assoluta. La poliziotta di guardia mi invitò a ripercorrere il breve tragitto ed il metal suonò ancora. Tolsi il capotto ed il maglione rimasi in jeans e t-shirt. I miei abiti passarono sotto il piccolo tunnel che controlla il bagaglio a mano e tutto risultò in ordine. Io invece transitai nuovamente sotto il metal che ricominciò a suonare. Venni perquisito, non è mai piacevole, ma non venne trovato nulla. La poliziotta prese un metal manuale, di quelli che sembrano una grossa lente, e cominciò a esaminare ogni parte del mio corpo. All’altezza del ciccio si udì un bip bip e tutta la folla  accodata si mise a rumoreggiare incuriosita.  Ripeté l’operazione e l’esito  fu lo stesso. Per un attimo mi smarrii. Un brivido mi percorse la schiena  mentre immaginavo la stretta dolorosissima che avrebbe potuto infliggere ai miei cari gioiellini ficcanasando con quelle sue enormi mani nere. Fortuna volle che avesse preso gusto a far cantare bip bip al metal, che teneva saldamente in mano, sopra la zona sospetta. Attorno a me il campanello di persone andava crescendo. Avevo puntati addosso sguardi tracimanti dal desiderio di capire cosa sarebbe successo.
Sarei rimasto in mutande o mi aspettava una capillare perquisizione alla zona rossa  del mio corpo?
Poi l’illuminazione celeste.
I have got a big metal’s dick!!!
Lo dissi improvvisamente ad alta voce. Lo ripetei quasi a cercarne conferma. Tutti scoppiarono a ridere. La poliziotta invece mi lanciò uno guardo elegiaco, delusa dall’inattesa sortita. Chissà cosa s’era cacciata in testa. Proprio nel momento in cui la situazione stava precipitando, dalla tasca estrassi infatti un minuscolo fermaglio, attorcigliato nel tessuto da qualche lavaggio, ed impercettibile al tatto esterno. Il metal aveva smesso di allarmare.
Sorte peggiore toccò invece ad un turista italiano al deposito bagagli. Avvicinò un facchino e, giuro che è vero, gli disse:
Facchimen , pijame a valigia!
Tutti conoscete l’inglese meglio di me ed è pertanto inutile spiegarvi cosa potesse aver capito il facchino il quale chiamò la polizia per l’insulto ricevuto.

***

Dal libro Hola Pelacodes di Claudio Roncaccioli

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