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La tentazione di esistere

Stanza n. 25. Chiudo la porta. E lascio fuori tutto ciò che non mi appartiene. Qui. Adesso. Ho l’occasione che ho tanto atteso di perdermi per ritrovarmi. Diversa. Sciolgo i capelli e ravvio i pensieri. Indosso un abito nero, stretto, che mi fascia tutta. E sento il peso di quella stretta. Al cuore. Ti sto aspettando. Arrivi ed è così. Un ventaglio di luna tra mani di fango. E’ tanto che ti aspetto, sai. E tanto che aspetto me. L’odore di noi si può quasi toccare. Occhi a cercare parole.
Parole come morsi. Di fame. Che aspetti? Uccidimi. Sono qui che ti chiamo per nome. Non vedi? Tu con il tuo cappello che ti delimita perché a un certo punto finisci. Ed è proprio da quel punto in poi che per me cominci. Tu che vieni dal mare e hai addosso il sapore di occhi sconosciuti e mani sporche. Tu che hai avuto donne senza volerle, senza cercarle. Senza capirle. Tu che hai l’amicizia di altri uomini: marinai di marciapiede e naufraghi aggrappati a un tavolo che galleggia nel vino. Tu che continui a navigare. Il mare. Il cielo. Il cuore. Tu in cerca di un’isola di silenzio, di un’isola di pace dal rumore del mondo. Tu che hai subito un danno e che sei pericoloso tanto quanto il danno che hai subito. Tu che non comprendi, ma che mi strappi la pelle a morsi. Tu che mi togli il fiato e che ti rubi i miei pensieri. Tu che hai sempre le parole giuste. Tu che non hai mai le parole per tutti. Tu che sei il mio limite. Tu che sei la mia possibilità. Io in te mi perdo e il desiderio di perdermi è un abisso senza fine. Tanto quanto la tentazione di esistere. Per te…

Stanza n. 17. Ho chiuso la porta da un po’ e a volte ho davvero l’impressione di aver smarrito le chiavi. Sempre che ancora sia rimasta la serratura. Non c’è molto che mi appartenga in realtà, neppure nella mia stanza. A un certo punto finisco, già. E finisci pure tu. Poi c’è un berretto rosso, non il mio di tweed, un berretto rosso con una visiera nera e una fascia sottile e sotto, laggiù, tra i ciuffi d’erba e una fobia qualsiasi, un paio di scarpe scure con la punta rinforzata. Sono quelle che ci passa la ferrovia, quelle che sono parte della tua divisa ché da capostazione proprio non puoi permettertelo di camminare a piedi nudi. E poi c’è una mano che osserva un binario morto e ripara gli occhi dal sole. Col dorso rivolto alla fronte e il palmo al cielo. E io lì in mezzo, vestito da capostazione e col talento per l’inconsistenza. Io però non ho subito nessun danno, credimi, e ho vegliato sulle tue parole fino a che non sono dovuto partire. Più mi guardo l’ombelico, però, e più mi rendo conto che il mondo è meraviglioso e io non ho subito nessun danno. Si impara a mordere solo dopo esser stati morsicati e io ho dato e ricevuto. Il resto sono virgole e punti a capo che gettiamo qua e là per darci l’illusione tutta nostra di avere una vita speciale. In realtà è la vita di tutti, modellata nella creta degli anni a immagine e somiglianza dell’idea che ci siamo fatti di ciò che avremmo voluto. Non ci sono. Non ora, non con quel berretto e quelle scarpe, non più. E ho dieci centesimi che mi crescono nelle tasche. Ci comprerò un castello e osserverò la mia faccia di ieri farsi di pietra, grigiastra e nuda come i boschi in inverno.

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