Quella mattina Anita si svegliò di soprassalto, in un bagno di sudore. Accese la piccola lampada posta sul comodino e osservò l’ora attraverso un velo che pareva le coprisse gli occhi: mancava un quarto alle sei. Si chiese il motivo per il quale si era destata così presto, lei che d’abitudine si svegliava non prima delle sette, e solo grazie alla sveglia che all’ora comandata strepitava senza pietà. Allora si ricordò del sogno maledetto che aveva fatto. Le pareva di essere in un’aula di tribunale, al centro di una moltitudine di gente incappucciata, disposta in semicerchio su alti scranni, talmente alti che le doleva il collo nell’osservare quegli strani individui che la fissavano con piglio severo. In posizione dominante, stava una signora gigantesca vestita di nero; portava occhiali stringinaso, da sopra i quali spuntavano degli occhi luciferini, sprizzanti lampi di luce. Fissava Anita con tale intensità che la ragazza sentiva quell’orrendo sguardo penetrarle il cervello. Ad un certo punto il donnone stese il braccio e puntò lo smisurato indice sul petto di Anita, esclamando con voce cavernosa: “Non hai possibilità di salvezza, la condanna è stata emessa in via definitiva”.
La ragazza andò in bagno per rinfrescarsi la faccia. “Dio mio, che strazio!” esclamò, osservandosi allo specchio.
Mentre s’asciugava il viso, si ricordò che alle dieci doveva presentarsi a casa di una nota scrittrice, il cui nome non le giungeva nuovo, ma era sicura di non aver mai letto un suo libro. Non sapeva nemmeno che faccia avesse.
Anita avvertiva l’assoluta necessità di mandar giù un buon caffè; perciò andò in cucina con l’intenzione di prepararlo assai forte. Nell’atto di prendere la caffettiera dalla dispensa, non poté evitare, complice la levataccia, che un paio di pentole cadessero sul pavimento, le quali emisero un tal boato che sicuramente doveva aver svegliato, benché un po’ sordo, il vecchio Leonardo, che abitava due piani sopra di lei. Figuriamoci se quel fracasso non aveva scaraventato giù dal letto l’amica Alessia, con la quale divideva il miniappartamento affittato ad un prezzo da rapina.
Alessia apparve sulla soglia della cucina. S’appoggiò allo stipite della porta e si stropicciò gli occhi con il dorso della mano destra.
“Vuoi farmi fare un colpo?” disse con voce un po’ roca.
“Hai ragione, Alessia, scusami. Ho fatto un sogno orribile; sono ancora tutta scossa. E quelle stupide pentole, sembra che abbiano l’argento vivo”. Anita mise sul fuoco la caffettiera. “Prendi un caffè con me?”.
“Volentieri”. Alessia entrò in cucina e si sedette dopo aver dato un buffetto sulla guancia all’amica. Mentre sorbivano il caffè, Anita raccontò il sogno che aveva fatto.
“Sai cosa penso?” disse Alessia. “Penso che ti sia rimasto sullo stomaco qualcosa di pesante che hai mangiato ieri sera; forse i peperoni”.
“È probabile” concordò Anita. “Ma perché quel donnone, con quell’aspetto inquisitorio?”.
“Non devi presentarti alla scrittrice? Ecco risolto l’enigma: ti sei lasciata suggestionare da quell’incontro”.
“Dev’essere proprio come dici tu. Speriamo che non sia di cattivo presagio”.
“Che vai a pensare; non prenderla sul tragico” cercò di tranquillizzarla l’amica”. A che ora devi andare da lei?”.
“Alle dieci”.
“Che dovresti fare di preciso?”.
“Di preciso non lo so. Chi me l’ha segnalata ha detto che vuole una brava segretaria; soprattutto provetta stenodattilografa”.
“Beh, quanto a questo, non poteva capitarle di meglio: sei una campionessa” .
“Non esagerare. Diciamo che me la cavo”.
“La solita modesta”.
Alessia diede un’occhiata all’ora.
“Senti cara, ti voglio bene, ma ho un sonno che non riesco a tenere aperti gli occhi. Perciò ti saluto e mi ficco sotto. Tanto oggi è sabato; e comunque il notaio non mi ha chiesta, perché deve andare fuori città con la moglie”.
“Ciao, Alessia. Grazie per l’incoraggiamento”.
“E tu, non torni a letto?”.
“Non ho più sonno e se dovessi coricarmi mi sembrerebbe di stare sulle spine”.
Le ragazze si salutarono con un bacio.
Anita, un po’ rincuorata, andò in bagno dove fece una benefica doccia. Poi trasse dall’armadio l’abito più bello e lo stese sul letto. Si pettinò con grande cura, si profumò con un’essenza delicata che sapeva di fiori. Si vestì. Quindi si ammirò allo specchio per almeno un quarto d’ora, sistemando qua e là qualche ricciolo un po’ ribelle. Soddisfatta, decise di uscire, anche se mancavano un paio d’ore all’appuntamento.
L’amore accanto di Antonio Zanchet – Studio LT2, 2009 – pag. 142
Il commento di NICLA MORLETTI
Venezia, un’illustre scrittrice dall’ammaliante nome Dafne, un palazzo sul Canal Grande, una cameriera fredda ma cortese e una ragazza giovane e carina. Ecco gli ingredienti giusti per la trama di un accattivante e invitante romanzo di ampio respiro.
Antonio Zanchet è abile tessitore di trame, eccellente narratore di storie. Il suo è un linguaggio fluido e discorsivo. Egli scava a fondo nella psicologia dei personaggi rendendoli ancora più interessanti e descrive scene e dialoghi che invitano alla lettura, con quel pizzico di suspence che non guasta mai. La vicenda si svolge a Venezia. Ci troviamo in un bellissimo palazzo gotico affacciato sul Canal Grande. Che meraviglia! Pare quasi di respirare quell’aria e quel cielo apparentemente immobili e pur vivi. Il palazzo è abitato da Dafne, abile scrittrice dal carattere assai imperioso. La vita sembra scorrere tranquilla con la segretaria Anita e la cameriera Virginia. Ma nel palazzo c’è una porta misteriosa sempre chiusa da cui proviene però un dolce suono di violino. Una porta misteriosissima di cui Virginia custodisce la chiave. Al lettore la scoperta del mistero.




