Il Decisionista di Vincenzo Monfrecola

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La nostra storia comincia con un funerale triste, una fredda giornata di sole e la notizia che a Londra, nei grandi magazzini Harrods, è possibile andare su e giù senza fatica utilizzando un ingranaggio metallico chiamato scala mobile.
Era il 20 giugno del 1898 e in tutta l’Inghilterra la primavera era arrivata in ritardo, manifestandosi come un cucciolo timido che cerca di farsi degli amici: un passettino impaurito in avanti e una fuga terrorizzata all’indietro. Non arrivò in ritardo, invece, l’estrazione della lotteria, che assegnò al fortunato vincitore la ragguardevole cifra di 10 mila sterline.
Così, tra gioie e dolori, la vita andava avanti con quel ritmo solenne scandito da migliaia di anni di storia, e anche la morte aveva un suo ruolo di tutto rispetto e, ogni giorno, cambiando solo i protagonisti, veniva celebrata nel solito, identico modo.
La scena, quindi, non cambiò neanche quel mattino del 20 giugno del 1898, quando nel piccolo e ordinato cimitero di Streatham, tra gli alberi centenari, simili a giganti con le braccia aperte, il piccolo corteo funebre, guidato da un parroco infreddolito e desideroso solo di rinchiudersi in parrocchia, si mosse tra le secolari tombe di pietra per trovare degna sepoltura al suo defunto protagonista.
Il corteo poteva contare a malapena quattro persone. C’era il parroco, lo seguiva il becchino, dietro di lui c’era un uomo elegante che poteva essere un parente del defunto o il suo medico di fiducia, chiudeva la fila un altro uomo dall’aspetto tarchiato e trasandato che, molto probabilmente, era l’aiutante becchino.
Dopo pochi passi il corteo si fermò e tutti si avvicinarono all’aiutante becchino, dissero qualche parola in fretta e furia, una stretta di mano e si dileguarono velocemente come scarafaggi.
Ognuno per la sua strada.
Così Robert Younghusband, scrittore di libri polizieschi, rimase da solo con l’espressione sbalordita, propria di chi ha bisogno di riposo, mentre guardava la bara del suo defunto zio Henry Reginald Younghusband che veniva calata, da alcuni prestanti giovanotti, sotto due buoni metri di terreno.
Dimenticavo di dirvi che il defunto Henry Reginald Young?husband, nel suo ambiente, era chiamato anche sir Toft per la sua composta gentilezza e per tutta una serie di condizioni che vi spiegherò. Di certo voi non lo avete conosciuto in vita, ma, secondo chi lo conosceva, rappresentava un vero e proprio mistero della scienza umana, perché pare godesse di superba salute sebbene avesse condotto una vita non certamente irreprensibile.
I suoi malandati coetanei, che avevano folleggiato con lui alla luce dei lampioni a gas di Londra ed erano da tempo condannati a un’esistenza fatta di brodini scipiti, acqua e cure mediche, avevano molto da criticare in proposito. Un uomo come quello, sostenevano, avrebbe dovuto concludere la propria esistenza su una poltrona a rotelle e non svolazzare di qua e di là a rincorrere le sue scommesse e a cenare nei migliori ristoranti, chiedendo pure la lista dei vini senza neanche il benché minimo tremore di mani.
Però, dalla sera in cui la sua Clodette, una giovane e avvenente ballerina francese, gli preannunciò che portava in grembo un figlio tutto suo e lui non avrebbe più dovuto preoccuparsi di trovare un erede cui lasciare tutta la sua ricchezza, per la vita terrena dell’arzillo sir Toft iniziò il conto alla rovescia.
Purtroppo ogni grande uomo ha un punto debole, e se per Achille era il tallone, per sir Toft erano le belle donne e le scommesse.
Grazie a una laboriosa gioventù e a una fortuna sfacciata, in vecchiaia aveva ammucchiato una notevole quantità di denaro che riusciva a spendere disinvoltamente grazie all’aiuto di Clodette.
Come dicevamo, il vecchio Henry Reginald Younghus?band scommetteva su ogni cosa gli capitasse e la sua fortuna sfacciata faceva il resto; si racconta che vinse anche quando scommise sulla data della sua morte, avvenuta a pochi giorni dal sessantaduesimo compleanno. Ma quella fu l’unica scommessa vinta che non riuscì a incassare, o almeno così credevano tutti, e le sue ultime parole prima di chiudere gli occhi per sempre furono rivolte a se stesso e al giovane avventuriero o gran figlio di buona donna che era stato: «Buonanotte, mio caro ragazzo» disse in un momento di lucidità, «e sogni d’oro».
La questioncella del denaro, per volontà testamentaria, fu divisa in due parti uguali. Una parte dell’eredità andò all’unico parente in vita, ovvero quel tarchiato e trasandato nipote simile a un aiutante becchino che ora se ne stava inebetito nel cimitero di Streatham a guardare come lo calavano nella fossa e che, dalla sera alla mattina, divenne l’indiscusso possessore di 32 mila sterline, 55 scellini e alcuni pence, oltre che di una casa a Croydon.
Un’altra parte uguale di eredità, ma con l’aggiunta della casa del defunto a Streatham, fu devoluta a un’associazione benefica per uomini e donne rovinati dal gioco.
A Clodette e al nascituro non fu lasciato neanche un penny.
A questo punto credo che vadano fatte due doverose precisazioni. Innanzitutto, la storia che sto per raccontarvi è frutto di ricordi vissuti in prima persona e di un’accurata ricostruzione, fatta servendomi di dichiarazioni spontanee e di indiscrezioni, più o meno riservate, che all’epoca mi provenivano dalla famiglia Younghusband e da chi era in stretto contatto con essa. In talune circostanze ho fatto ricorso a quella che, scientificamente, il professor Mc Furlham definiva la logica degli eventi: una specie di fantasia ragionata che si diversificava dalle invenzioni di sana pianta per il fatto di avvalersi di una logica – nella maggior parte dei casi – molto verosimile all’evento che si sarebbe dovuto sviluppare, quasi un percorso consequenziale.
Vi faccio un esempio: se un ricco dona 10 mila sterline a un povero, non sappiamo se il ricco sia diventato povero ma possiamo dare per sicuro che il povero sarà diventato ricco.
Questo è il ragionamento, più o meno.
La seconda precisazione di cui voglio mettervi al corrente è che la storia degli Younghusband è anche un po’ la storia della mia vita, e che vita! Ero allegro e ridente, mi è costato fatica ripercorrerla, non tanto nel ricostruire i ricordi, ma nel cercare poi di dimenticarli.
È vero, non ho mai scritto un libro e se, ora che il mio tempo va scadendo, mi sono deciso a farlo non è per il desiderio di raccontarvi la mia vita e quella degli Younghusband o per qualche altra nobile causa, come gli scrittori di oggi tengono a sottolineare, ma solo per soldi.
Sì, cari lettori, detta più chiaramente, sono sicuro che questa storia possa diventare veramente un buon affare per il mio ormai esangue conto in banca.
Ammesso che ne abbia ancora uno.

***
Dal libro Il Decisionista di Vincenzo Monfrecola – Cavallo di Ferro Editore, 2010

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