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Il ritorno di Giorgio Vindigni

UN UOMO TENACE

“Tripoli, bel suol d’amore, ti giunga dolce questa mia canzon”. –
Erano i versi di un canto che dava speranza a tanti Italiani, la maggior parte precari o reduci dalla prima guerra mondiale (1915 – 1918) che, in cerca di fortuna, si avventuravano nel credo politico del momento, inteso a formare del Regno d’Italia un Impero coloniale.
Erano gli anni venti.
L’Inghilterra, la Francia, la Spagna, il Portogallo, il Belgio, l’Olanda, quasi tutti gli Stati dell’Europa occidentale godevano già da qualche tempo di quest’espansione territoriale nei vari Continenti: Africa, America del Sud, medio ed estremo Oriente.
Tali conquiste, motivate da uno spirito di civilizzazione delle terre lontane, mirarono a espansioni territoriali e a un ritorno, in termini economici, con lo sfruttamento agricolo, forestale e minerario che promosse in Europa il commercio di tè, spezie, oro, diamanti. Queste terre occupate funzionarono da testa di ponte per altre conquiste.
Lo scopo, in un certo qual senso, fu raggiunto. I popoli, assoggettati già nel seicento e nel settecento, avevano assorbito lentamente la civilizzazione europea al punto che alcuni indigeni divennero, in tempi più recenti, cittadini europei. I colonizzatori seppero sfruttare quelle terre conquistate, anche a costo di vite umane. Esse furono falciate sia dalle popolazioni autoctone sia dai Pirati che all’epoca, seguendo le rotte dei velieri commerciali e militari, ne razziavano le merci o addirittura le stesse navi.
Stessa cosa si era prefissata l’Italia mussoliniana, fascista, nello stringere patti d’alleanza con la Germania hitleriana, nazista. Già nel 1912 aveva conquistato la Libia, occupando la Tripolitania e la Cirenaica, che da alcuni secoli era sotto l’Impero turco, iniziando quella espansione territoriale che l’avrebbe portata a diventare un impero coloniale.
“Tripoli sarai italiana,  sarai italiana al rombo del cannon”.
Al ” … bel suol d’amore”, seguiva la strofa “sarai italiana al rombo del cannon”. Una conquista, quindi, non motivata da principi umanitari e di civilizzazione, bensì di sudditanza, di sottomissione e d’incorporazione della Libia, denominata in seguito “quarta sponda”.
Migliaia di giovani italiani ricevettero la “Cartolina precetto”, altri chiesero di partire volontari per conquistare altre terre da annettere alla Patria e garantirle il nome di “Impero”. Il Duce fu la loro guida; la sua parola li entusiasmava. Madri, mogli e figli piangevano alla partenza dei convogli o delle navi che portavano i loro giovani eroi verso terre lontane: l’Africa, la Russia, l’Albania. A migliaia morirono sui campi di battaglia; le loro lacerazioni furono imbrattate dalla sabbia del deserto in Africa, mentre il sangue dei feriti e dei moribondi formava pozzanghere vermiglie sulla candida neve di Russia. Decine di migliaia di giovani non fecero più ritorno alle loro case; i volti dei loro congiunti erano cosparsi di lacrime per una morte così assurda. Vedove, promesse spose, orfani, e anziani genitori si videro privare del proprio unico bene.
Come in ogni guerra si assistette a scene d’orrore e punizioni per i ribelli. Molti musulmani eminenti e oppositori furono catturati e resi innocui. Accadde, come in tutte le guerre, che i conquistatori furono motivati da ragioni di padronanza e di libero arbitrio, fino a quando la razionalità e il motivo principale della conquista non prevalsero e ripristinato l’ordine e la legalità.
I primi coloni giunsero dal Veneto, poi da altre regioni italiane, e dalle vicine colonie francesi dove molti di loro si erano in precedenza stabiliti, portando esperienze artigianali e professionali diverse. A molti furono affidati ettari di terreno denominati “concessioni”, poiché si trattava d’appezzamenti provenienti da occupazione bellica, e quindi sotto la tutela del Governo italiano; terreni che in seguito furono trasferiti di proprietà a coloro che li avevano riscattati con il proprio lavoro.
Erano estensioni sabbiose, più o meno ampie, prive di coltivazioni e di acqua. I Coloni italiani furono persone coraggiose che, con le loro famiglie, incominciarono a trivellare pozzi, per fornirsi di acqua, costruendo alti tralicci di ferro sormontati da una grande ruota elicoidale che, azionata dal vento, dava energia a una pompa sommersa; erano i “pozzi artesiani”. L’acqua sgorgava in superficie ed era avviata in grosse vasche di raccolta, in cemento, capaci di contenerne ettolitri. Essa serviva sia per irrigare i campi, che per trovare refrigerio dalla calura nelle calde estati, cui la maggior parte di loro non era assuefatta, con l’immersione saltuaria a uso piscina.
Con gli aiuti economici e tecnici dello Stato italiano, essi costruirono interi villaggi. Sorsero abitazioni ampie a seconda delle esigenze familiari, depositi, ripari per il bestiame; quei contadini trasformarono, in pochi anni, tutta la striscia costiera libica in un giardino lussureggiante.
Orti, uliveti, palmeti, il grano maturava al sole caldo e i frutteti si espandevano in tutte le zone. Le arance, i mandarini, i limoni e agrumi in genere, le albicocche, l’uva, le prugne, i cocomeri e i meloni, e poi le fragole, i gelsi, i datteri e le banane, tutta frutta bisognosa di sole e calore aveva trovato in quelle “concessioni” il suo “habitat” naturale; il profumo e il sapore di quella frutta maturata sulle piante rimarrà solo un lontano piacevole ricordo.
I lembi di spiagge lungo le coste furono bonificati e resi abitabili, trasformati in pontili, panchine, bastioni. Nelle insenature naturali sorsero porti ampliati artificialmente. Strade costiere collegarono le varie cittadine e villaggi ai due principali capoluoghi.
I giardini cominciarono a espandersi lungo le coste, verso le città, con fontane e piccoli monumenti, alberi da ombra che emanavano frescura per i passanti e le mamme che passeggiavano con le carrozzine dei propri bambini. Palazzine, ville, chiese, banche, attività commerciali e finanziarie sorsero nel giro di pochi lustri; furono costruiti cinema, teatri e persino un Casinò.
(…)

Il 29 ottobre 1922 alle ore 12.55, il Re Vittorio Emanuele III affidava incarico a Mussolini di formare il nuovo Governo.
Tra le sue ambizioni vi era quella della creazione di un Impero che portasse l’Italia a essere una Nazione importante e rispettata. La Libia fu il suo primo obiettivo verso il quale furono incanalati investimenti d’uomini e mezzi. Poi sarebbe stata la volta dell’Etiopia, dell’Egitto e così via.
L’Italia era quindi in fermento e gli Italiani fecero affidamento nel programma presentato dal Fascismo; conquiste volevano significare lavoro e benessere per tutti. Dopo circa quattro anni in ferrovia, durante i quali era stato allietato dalla nascita di Assunta, giunse voce ad Antonio della richiesta di lavoratori “volontari” per l’Africa italiana. Ritenne tal evento una mossa audace da intraprendere, rischiosa, ma nel frattempo allettante per mirare a un futuro migliore. Ebbe dei dubbi; con la moglie e due bambini verso l’ignoto, di là del mare, in terra africana. Ne parlò con la consorte, ma dovette decidere da solo, come sempre. Lasciò il lavoro presso le Ferrovie e, fiducioso nell’aiuto dell’Onnipotente, decise di partire per la Tripolitania dove, come auspicato, l’avrebbe atteso migliore fortuna. Aveva trent’anni, l’età in cui l’uomo è ormai maturo per prendere quelle decisioni dalle quali dipenderà il proprio futuro.
Chiese di poter lavorare a Tripoli, la città dove aveva sede il Governo italiano d’occupazione di quel grande scatolone di sabbia, com’era nota la Libia, a causa dell’immenso deserto che dal Mediterraneo s’estendeva fino ai confini col Sudan, e dall’Egitto a quelli con la Tunisia e Algeria.
Il viaggio fu lungo; sulla nave s’incontravano anche dei militari che andavano a stanziarsi nelle caserme tripoline e, nel frattempo, davano fiducia e tranquillità ai passeggeri emigranti.
Trovata una prima sistemazione, tornò a prendere la famiglia, con la quale arrivò a Tripoli nel giugno 1928. Aveva un bambino di sei anni, Gregorio, e una bambina di un anno, Assunta. Era partito per migliorare la propria posizione economica e sociale, convinto a lottare per superare quella scala di valori che formano l’uomo e la famiglia; era disposto a svolgere qualsiasi tipo di lavoro, conscio di – come afferma anche il sommo poeta Dante – ”Quanto di sale sa lo pane altrui, lo scendere e salir l’altrui scale”.
Uno dei più grandi teatri, il Miramare, distrutto poi. durante la seconda guerra mondiale, era in costruzione proprio nel 1928 sul lungomare di Tripoli, dirimpetto al castello medievale dedicato a San Giorgio. Fu in questo contesto che fu offerto ad Antonio il suo primo lavoro; quello cioè di collaborare alla costruzione di quel gran teatro dalla vista sul mare. Lavoro pesante per lui, non più abituato a fatiche fisiche. A casa lo attendevano la moglie e due bambini presso una modesta abitazione. Furono situazioni difficili; le ore di lavoro giornaliere non avevano limite; le attività andavano sviluppandosi e c’era bisogno dappertutto di personale. Finita la sua attività quotidiana al Miramare, continuava la giornata lavorativa con altri impegni. Fu così che iniziò a mettere da parte qualche risparmio. La sera faceva la “maschera” al cinema: così era chiamata la persona che controllava i biglietti all’entrata nelle sale. Tornava a casa stanco dopo aver trascorso una giornata di lavoro, anche se vario, per aver sopportato oltretutto un clima cui non era abituato.
Oltre quaranta gradi all’ombra affaticavano il fisico più di quanto normalmente accadeva in Sicilia.
Le giornate peggiori le viveva però quando iniziava quel vento che proveniva dal deserto, il ghibli. L’aria si tingeva di giallo; era la sabbia fina che il vento trasportava, invadendo anche le città costiere, dalle dune che cambiavano forma e locazione. Iniziato il suo percorso, non si arrestava prima di tre giorni e altrettante notti. Superato il quarto giorno senza essersi calmato, il vento proseguiva la sua corsa per altri tre giorni. La sabbia entrava nelle case attraverso le minime fessure degli infissi chiusi anche ermeticamente. I polmoni vivevano di quell’aria; spesso si lavorava mettendo un fazzoletto davanti la bocca e il naso, legandolo dietro la nuca.

(…)

Dal libro Il ritorno di Giorgio Vindigni

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