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Sette giorni di solitudine di Drazan Gunjaca

Giornata prima

M’ha lasciato. Finalmente. Finalmente solo. Letteralmente e metaforicamente. Solo che questa solitudine non assomiglia a quella da me immaginata durante le tante crisi di squilibrio… Mi riferisco a quella sorta di ‘solitudini’ che all’erompere delle frustrazioni che abbiamo accumulato scambiamo ingenuamente per libertà senza che prima ci si sia posti la domanda cosa sia la solitudine né cosa sia la libertà… Questa solitudine non ha nulla a che vedere con la tanto agognata ‘libertà’… Questa non è una solitudine tra virgolette e arriva a ondate sinusoidi discordi, come una tempesta sul mare. Dapprima scorgi in lontananza nuvole fosche, irose, alle quali non fai troppo caso per il semplice fatto che sono lontane. Almeno a prima vista. Vedi anche i fulmini squarciare l’orizzonte, si sente un toneggiare cupo, soffocato, ma tu, Dio solo sa per quale ragione, sei convinto che anche questa bufera girerà al largo dal tuo scoglio. Te la stai godendo in coperta d’una vecchia barca maltenuta che galleggia al largo su onde sonnacchiose mentre il tuo corpo seminudo assorbe i raggi del sole… E mentre stai sognando dimentico di tutto, all’improvviso ti sveglia un toneggiare assordante e già un fantasma nero e furente ti sovrasta e ti circonda da ogni lato infierendo senza pietà sulla barchetta che geme e sul tuo corpo gelato. Fuori di te, ti giri e rigiri tentando di scorgere attraverso una cortina buia, opaca e appiccicosa il porto tranquillo dal cui riparo hai sconsideratamente salpato, del tutto impreparato all’imprevedibile inferno…
D’altro canto, chi va a pianificare o a dir poco, a prevedere, il proprio inferno? Forse i pessimisti? I fatalisti? Io non appartengo ad alcuno di loro. Almeno, mi sembra. In effetti, neanche sono ottimista. Sono realista. Con una leggera tendenza all’idiozia. In verità, non potrei affermare di non aver avuto a disposizione già da parecchio una serie di fatti o se non altro d’indizi, che, in tutta onestà, stavano indubbiamente portando ad un ulteriore sviluppo degli avvenimenti, a quanto sta succedendo adesso, ma si da il caso che avendo balordamente ritenuto essere io un tipo fuori dal comune, avevo creduto che in virtù di questa distinzione, ne sarei stato risparmiato… Anche se, mano sul cuore, difficilmente saprei spiegare con bastante coerenza in cosa consista questa mia ‘distinzione’, poiché si tratta più d’uno stato interiore difficile da esprimersi a parole, più d’una sorta di sesto senso in virtù del quale a te non possono succedere le brutte cose che si abbattono su quanto ti circonda… E fintante che non ti colpiscono, ti lusinghi nell’idea di essere un cocco del destino; fino all’istante in cui quello stesso destino non si ricordi di te. Non ne ha di cocchi, lui. Esistono soltanto i fortunati, dei quali si è scordato più o meno a lungo. Ecco, di me, s’è ricordato. Te ne accorgi per puro caso. Così ti capita una di quelle discussioni quotidiane per… non ricordo più per che cosa, ma per come è finita, so che il destino ci ha messo il suo lungo zampino rapace… Qualcuno m’ha detto una volta che il destino è il ladro dell’avvenire e il carceriere del passato. Considerazione che trasuda amarezza, non è vero? Lasciamo stare il destino. Qualsiasi cosa gli venga attribuita, se ne farà carico con insopportabile leggerezza. Torniamo alla già menzionata discussione di un’intera serata. Ecco un piccolo saggio della fine di quell’amabile conversazione svoltasi tra Lei e me, che in qualche maniera raffigura il varo della mia navicella esistenziale nelle torbide acque portuali sulle quali galleggiano gli escrementi degli spettabili abitanti di questa sovrappopolata cittadina. Avete mai analizzato il momento allorché un dialogo si trasforma in lite? Sì, lite! Pandemonio. Apocalisse tra quattro pareti. Poveri muri! A me, in qualche maniera, questo momento fatale sfugge, ragione per cui rimango attonito, impreparato a quanto segue.

–    Sei un idiota – ha urlato, fuori di sé – come puoi neanche…
–    Finché mi darai dell’idiota, non ci sarà alcun dialogo – l’ho interrotta perentoriamente. L’unico meccanismo di difesa che io conosca in tali situazioni consiste in quelle battutine più o meno pertinenti con le quali interrompo l’interlocutore nella speranza di…
–    Ma, amore, io ti sto sussurrando paroline dolci per non dover usare un’altra espressione ‘più blanda’ – ha proseguito Lei sullo stesso tono, con l’aggiunta d’una sfumatura di sarcasmo. Bene, se di dolcezza si tratta, allora si può anche accettare, sebbene fino a ieri avessi immaginato la dolcezza in modo del tutto diverso. – Dunque, razza d’idiota…
–    Non occorre che tu lo ripeta, ho capito – l’ho interrotta ancora.
–    Che hai capito?
–    Che sono un idiota.
–    Bene. Benissimo. No, non va bene per niente…
–    Cosa c’è, adesso, che non va bene?
–    Tu non riesci a capire che razza d’idiota sei.
–    Nessun idiota ne è capace. È per questo che sono idioti. Tuttavia, ecco, io mi ci proverò con tutte le mie forze. Soltanto per te. Ce la metterò tutta. Prometto.
–    Prometti? Ti rammenti tutte le promesse che hai fatto in quest’ultimi vent’anni…? Gesù, vent’anni spesi per te! Vent’anni, buttati! Il fiore degli anni…La mia gioventù…
–    Non che voglia immischiarmi in ciò che tu stimi essere la qualità della nostra vita in comune, ma se è cosi che la metti, allora, che ne è stato dei miei, di anni, dello stesso periodo?
–    Tu li hai vissuti. Capisci? A differenza di me, tu li hai vissuti.
–    Beato me! Ti sarò grato fino alla tomba per avermi illuminato appena in tempo. Per inciso, in realtà, cosa sarebbe successo ai tuoi anni?
–    Sei stato tu, a rubarmeli!
–    Ma dààài!!! Anche ladro, sono diventato! Degli anni altrui. Dio, ti ringrazio che a nessuno sia venuto in mente di considerare questo ‘furto’ un reato.
–    Se qualcuno se ne fosse ricordato, tu saresti stato condannato all’ergastolo.
–    Senza possibilità di condono – ho concluso.
–    Senza – ha replicato prontamente. Almeno su qualcosa siamo d’accordo.
–    Non proccuparti – ho cercato di consolarla – In mancanza d’una condanna della società per cotante nefandezze, io mi farò giustizia da solo e mi chiuderò in me stesso fino alla fine dei miei giorni.
–    Be’, è tutta la vita che sei chiuso in te stesso – ha sbottato Lei – È questo, il problema. Tra il resto, beninteso.
–    Già, ma ora questa introversione assume un significato del tutto nuovo.
–    Quale?
–    Un significato di condanna.
–    Tu m’hai punito con vent’anni d’inganni…
–    Con le migliori intenzioni. E, com’è risaputo, le vie che conducono all’inferno sono spesso lastricate delle migliori intenzioni…
–    Tutte le tue vie conducono all’inferno.
–    Molti pensano che l’inferno sia sottovalutato e che anche lì si possa trovare…
–    Lo so io alla perfezione cosa sia l’inferno.
–    Tanto meglio per te. Dal momento che non sai ciò che vuoi, è già una gran cosa sapere ciò che non vuoi. E l’inferno’, ovviamente, è ciò che non vuoi più, non è vero? Invece, grazie a quella condanna all’auto-segregazione ulteriore, io non sono più tanto sicuro né di questo né di quello, per cui non mi rimane che di scontarne la causa per il resto dei miei giorni. È onesto? Intendo, ritieni la pena adeguata al delitto compiuto? Delitto passionale? No. Delitto per amore? Nemmeno. Delitto per disperazione? Potrebbe passare, anche se un po’ forzato. Perché mi guardi così? Non è forse vero che un matrimonio inizia con la passione, dura finché c’è l’amore e se ne va in pezzi quando si manifesta la fase della disperazione… ?
–    Dio ti punirà per tutto ciò che mi hai fatto.
–    Non ne dubito affatto. Anzi, mi sembra che in buona parte quel conto me l’abbia già presentato. A dire il vero, sotto la voce che riguarda lo scopo, cioè il motivo per cui mi è stato presentato, non c’è scritto nulla e ciononostante alcune di quelle cambiali io le ho già pagate. Per precauzione. Dio saprà bene perché si fa pagare. – Se non lo sa Lui, allora…
–    Sembra che tu abbia pagato il conto sbagliato – ha detto Lei, maligna.
–    L’importante è che sia stato pagato, tutto il resto sono sottigliezze.
–    Ahimè! – ha sospirato profondamente – Dio mio, quanto sono stupida…
–    E dove sta la differenza tra una stupida e il summenzionato idiota?
–    Molto spiritoso. Adesso dovrei ridere, vero? Ah, ah, ah!
–    Ha chiamato la mamma questo pomeriggio – ho cercato d’attenuare la tensione cambiando argomento.
–    Me ne fotto – ha sbuffato Lei.
–    Tua, madre – ho specificato.
–    Ah, e che voleva?
–    Non ne ho la minima idea. Appena ha sentito che non c’eri, ha messo giù la cornetta.
–    Donna intelligente. Avrei dovuto mettere anch’io giù la cornetta tanto tempo fa, e non stare ad ascoltare per vent’anni la stessa solfa…
–    Un evergreen…
–    Prego?
–    Penso, dopo vent’anni d’ascolto permanente della stessa canzone, questa diventa un evergreen, non è vero? O c’è bisogno di qualche anno in più?
–    Stammi a sentire, tu, evergreen avvizzito…
–    Un evergreen dovrebbe essere un qualcosa d’eternamente giovane…
–    Nel tuo caso d’eternamente pazzo…
–    Eh, così non va – ho detto con decisione – O sono matto, o sono idiota.
–    Dov’è la differenza?
–    Mah, sono stato io a chiedertelo poco fa.
–    Uffa, risparmiami i tuoi trucchetti retorici inconcludenti e le tue sterili spiritosaggini…
–    Dov’è la differenza tra inconcludenza e sterilità?
–    Vaffanculo!
–    Vado ‘ffanculo.

A quanto si dice, come ad ogni altra cosa anche alla solitudine ci si può abituare soltanto che di tempo ne serve parecchio. Molto più di quanto sarebbe necessario per l’opposto. Io, il tempo di soddisfare le sue insaziabili pretese, non ce l’ho. È defluito. La clessidra si è rotta e i fini granelli di sabbia si sono sparsi un po’ ovunque per la mia vita. Alcuni sono stati subito soffiati via dal vento, altri sono penetrati nei pori e nei solchi più minuti e vi risiedono in santa pace assieme ad altro pulviscolo invisibile del quale ti accorgi soltanto quando fissi casualmente un punto in un canto della stanza in disordine dove sei andato a cercare un improbabile crepuscolo nelle ore pomeridiane. Qual è l’età necessaria per trovarti dinanzi al muro della vita? Quello che è più grande di tutti i tuoi desideri, piani, speranze? E va bene, per ciò che riguarda i piani, non mi ci trovo al massimo, i desideri le ultime buriane li hanno disseminati un po’ dovunque e ridotti talmente male da essere inservibili e in quanto alle speranze, sono affondate assieme a quella barchetta dell’inizio della storia. Povera barchetta. Coll’andar del tempo, sebbene legata e protetta nel porto, riusciva a stento a tenersi a galla, figurarsi se avrebbe potuto sopravvivere agli uragani odierni! Eppure, a lei mi legano molti bei ricordi. Rammento ancora quando, appena costruita, avevamo preso il mare tutti fieri sfidando burrasche e maremoti molto più forti. Era sopravvissuta ad ogni prova. Fino a queste ultime.

***

Dal libro Sette giorni di solitudine di Drazan Gunjaca, recensito da Nicla Morletti nel Portale Manuale di Mari.

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