La radio nel pagliaio di Alberto Calavalle

La radio nel pagliaio di Alberto Calavalle

Gennaio 1948

Il sole del mattino è un’esplosione di luce nella camera di Ari quando la mamma apre le imposte della finestra. E così improvvisa e intensa la luce che per qualche attimo egli tiene gli occhi socchiusi. Poi li apre in un sorriso, ma per poco. Li richiude quando memorizza la sua condizione e la ragione per cui la mamma è venuta. Ed egli non ha nessuna voglia di iniziare la giornata con un ago conficcato nel sedere. E il lato comico, che poi è tragico è che a fargli questo scherzo sono la mamma e la nonna, le persone a lui più vicine. Ma non agiscono per sadismo. Si adoperano per il suo bene, come gli ripete il padre.
Ari ne è convinto, ma da quando la mamma, dopo avergli chiesto come sta, scende a fare bollire la siringa, per lui seguono attimi di agitazione.
L’agitazione sale alle stelle quando la mamma e la nonna ricompaiono, la mamma nella veste d’infermiera che deve agire manualmente, la nonna in quella di psicologa che deve convincerlo ad accettare l’introduzione dell’odiato ago.
Le cose sono andate lisce fino all’iniezione numero trentacinque della sera. Poi qualcosa è andato storto con l’iniezione numero trentasei del mattino dopo, quando il liquido benefico non voleva entrare. Si è formato così un bozzo che ha tardato giorni e giorni a riassorbirsi.
Da quel momento la zona interessata non è stata più disposta ad accettare altre provocazioni provenienti da aghi. Oltretutto, accarezzando il suo sedere dolorante, Ari lo sente ruvido come una grattugia. Ne è seguito un terrore dell’ago ed un rifiuto psicologico si è impossessato del suo animo.
Da allora il supporto della persuasione della nonna è stato sempre necessario. Di lì la comparsa in coppia della mamma e della nonna ogni mattina ed ogni sera al momento dell’evento sacrificale.
Qualche volta poi gli interventi premurosi della nonna non sono sufficienti a convincerlo e allora entra in scena suo padre. Ma quando interviene lui, l’agitazione di Ari anziché calmarsi, diventa galoppante, perché lui è un uomo deciso e crede di risolvere tutto in modo fermo ponendogli una mano sulla schiena e una sulla coscia che Ari rifiuta con uno scarto improvviso. Rifiuta perché ha solo bisogno di convincersi. Di convincersi che se egli si lascia bucare il sedere, guarisce dalla malattia.
Il babbo capisce e si arrende. Si siede un momento a guardarlo. Se la prende con se stesso e col collegio dove la situazione delle sue tonsille, anziché migliorare, è peggiorata.
Poi, dietro un cenno della nonna per dire che non deve preoccuparsi, se ne va.
Restano in scena mamma e la nonna. Mamma che gli gira ora a destra ora a sinistra, con l’ago in alto in una mano e il tampone a mezz’aria nell’altra. La nonna ha un bel da fare con le sue parole e va ora di qua ora di là, dicendo ad Ari che si deve concentrare, convincersi che è forte, che non ha nessuna paura.
Ha un modo così dolce di parlargli che dopo un po’ egli si lascia andare al massaggio del tampone imbevuto di alcool, ma un attimo prima dell’affondo dell’ago, compie un balzo felino. Ari non sa neppure come faccia ad essere così pronto a sottrarsi al buco. Si meraviglia egli stesso perché la malattia l’ha infiacchito, ma in un battere d’occhio è dall’altra parte del letto. Lì trova la nonna ancora pronta a calarsi pazientemente nella sua funzione di persuasiva sostenitrice dell’evento.
«Perché tu sei bravo, perché ti fa bene, perché stai già meglio, perché nei giorni scorsi non ti muovevi per niente e adesso sei come un fulmine, perché se guarisci presto, potrai alzarti e venire in cucina con noi. Devi solo concentrarti».
A queste parole Ari finisce per cedere. Si aggrappa al cuscino, lo morde fortemente, poi si rilassa e si lascia trafiggere convincendosi che è per poco, che poi tutto passa. Ma poi non passa per niente ed egli è costretto a trattenere il fiato per un’eternità, perché il liquido tarda a entrare. E il suo gluteo torna a farsi duro come un pezzo di legno invecchiato. Questo comportamento ostacola ancora più l’afflusso del liquido e all’estrazione dell’ago si ritrova spossato e coperto di sudore. Comunque anche questa è fatta ed Ari può segnare un’altra crocetta sul quaderno.
Gli aveva insegnato il nonno a fare così. Il nonno le crocette le faceva su un bastone quando d’estate si trebbiava il grano. Si sedeva di lato nell’aia e ad ogni mina di grano che scendeva dalla trebbiatrice, tracciava una crocetta col coltello. In questo modo si teneva informato su quanti quintali di grano erano usciti.
Era anche in grado di fare una previsione su quanti quintali potessero ancora uscire, a giudicare dall’altezza della barca di covoni che restavano ancora da trebbiare.
L’idea era piaciuta subito ad Ari ed ora la mette in pratica segnando una crocetta sul quaderno per seguire di giorno in giorno quante iniezioni ha fatto e quante ne restano ancora da fare.
Oggi è alla cinquantacinquesima. Considera questo numero un risultato notevole e ne gode, adesso che l’iniezione di stamattina è fatta e che ne restano cinque per terminare il ciclo di cure. Però non può ancora essere soddisfatto più di tanto, perché il medico ha detto che, se necessario, bisogna protrarre ancora la cura con altre due scatole di fiale, che sarebbero altre venti.
Ari spera proprio di no, perché il suo sedere è sempre più simile alla grattugia più grossa, usata di solito per il formaggio di pecora quando è duro come un osso e la mamma ogni volta che si prepara ad iniettare, dopo avere esplorato a destra ed a sinistra, non trova più una fessura per un altro buco.
Il medico quando ha definito la natura della sua malattia, aveva parlato di evoluzioni seguite alla sua tonsillite non curata, associate alla pubertà, alla carenza di calcio e vitamine, al poco tempo trascorso all’aria aperta ed aveva aggiunto che se si riusciva a trovare in farmacia una specialità uscita di recente in America, di quella bastavano solo sei iniezioni. Suo padre è andato a Pesaro a cercarla, ma non l’ha trovata in nessuna farmacia. Allora è andato fino a Bologna, ma non c’è stato verso. Non l’ha trovata neppure là. Il medico ha dovuto così ripiegare su una medicina meno efficace ed ancora Ari è qui a dovere subire l’introduzione forzata di una dose mattina e sera.

***
La radio nel pagliaio
di Alberto Calavalle
2014, brossura, pag. 203
Guaraldi
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Il commento di NICLA MORLETTI

Un meraviglioso libro che vuole essere la voce di un bambino contro le guerre che ancora oggi uccidono tanti bambini. Evocativo il titolo: “La radio nel pagliaio” con le belle e veritiere parole di Ioseph Folliet in apertura: “Al termine della notte / non vi è la notte / ma l’aurora. / Al termine della disperazione / non vi è la disperazione / ma la speranza.” La lettura di queste pagine mi ha lasciato un segno, mi ha infuso coraggio, mi ha incantato perché è la storia di un bambino con le sue gioie e i suoi dolori, con lo stupore e la meraviglia nel cuore per la bellezza del suo mondo con quella sua esclamazione di fresca allegria: “Iauuu!!!”. Intorno i monti sembrano tenersi per mano: spiccano in lontananza le Cesane, il Pietralata, il Catria, il Nerone, il Montefeltro, i Sassi. Una fila di verdi cipressi pare arrampicarsi sul dorso del colle verso la vetta. In mezzo l’elegante città di Urbino con le sue mura, le case, i tetti, i palazzi ed i campanili. E oltre l’orizzonte? Là dove gli occhi non possono vedere esiste un altro mondo, non bello, non buono, non chiaro come il cielo. Senza voli di uccelli, senza il vento leggero tra i rami degli alberi. Inverno 1944: oltre i monti c’è la guerra. Segue una narrazione di fatti, eventi ed avventure che coinvolgono e commuovono. Ari è un bambino straordinario che scopre all’improvviso il terribile volto della guerra durante il secondo conflitto mondiale quando la Linea Gotica passa a pochi chilometri dalla sua città con i tedeschi che sono intenzionati a distruggere tutto e a far evacuare tutti gli abitanti. Il nostro protagonista ricorda centinaia e centinaia di famiglie in cerca di una sistemazione di fortuna. Ma dove andare? La lettura di queste toccanti pagine ci porta in un’atmosfera non così poi tanto lontana dai nostri giorni, perché una guerra è il dolore di tante guerre, come la sofferenza di un bambino diviene la sofferenza di tutti i bambini. Alberto Calavalle, già docente di Letteratura italiana e Storia negli istituti superiori, che ha svolto anche attività di collaboratore didattico presso l’Università degli studi Carlo Bo di Urbino, ci offre uno spaccato di vita della nostra storia denso di ferite, un passato che ci ha condotto fin qui. La scrittura dell’autore è mirabilmente fluida, corretta, lineare e chiara, un vero modello del bello scrivere tramite il quale egli riesce ad esprimere l’intensità delle emozioni del protagonista ed a farci vedere il mondo con gli occhi innocenti di un bambino. Un libro bellissimo e toccante. Un messaggio verso i potenti della terra affinché cessino le guerre. Per sempre.

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