Io cerco Jolanda di Adriana Maria Martino

Io cerco Jolanda di Adriana Maria Martino

Amanda, come le confessò in seguito, aveva sempre covato il desiderio di incontrare i suoi fratelli e ammirava Mathilda per essere riuscita a realizzarlo. Ma nonostante questo, averli rivisti era stato emotivamente impegnativo anche per lei. Tuttavia, ora che le barriere erano state abbattute, Amanda ritenne opportuno calare un carico da undici.
Chiamò Mathilda al telefono e senza troppi preamboli le propose: «Visto che hai avuto il coraggio e la tenacia per riunire tutta la famiglia, perché non cerchi anche Jolanda?»
Mathilda, la cui testa in quel momento era a mille miglia, sul fondo dell’oceano Atlantico, stentò a comprendere che cosa le stesse dicendo la sorella. Un segnale di allarme, tuttavia, suonò dentro di lei prospettando guai in vista, perché Amanda amava moltissimo comandare e dare ordini.
«Scusa, Amanda, ma che cosa stai dicendo?»
Come se parlasse a Salvatore, la sorella spiegò: «Ti ricordi di Jolanda, quella bambina della tua età che stava sempre a casa nostra, quella con i capelli rossi e gli occhi verdi? Quella molto timida che giocava sempre insieme con te?»
«Sì, certo che me la ricordo. Era la mia migliore amica. E allora?»
«Pure quella era figlia di nostro padre».
Mathilda rimase in silenzio, pensando che se Amanda intendeva farle uno scherzo aveva scelto un modo davvero crudele.
«Ma che stai dicendo? E perché me lo dici solo adesso?»
«Mati’, stavi tanto male appresso alla storia di nostro padre che non mi sembrava il caso di darti pure quest’altro colpo.»
«E allora te lo dovevi tenere per te. Che vuoi da me adesso?» gridò, sfogando su Amanda la rabbia che sentiva montare dentro nei confronti di quell’uomo che non sapeva tenersi addosso i pantaloni.
I suoi ricordi erano offuscati, come avvolti in una fitta nebbia. In quel periodo erano tanti i bambini per le strade intorno a casa. Era come nelle favelas in Brasile. Ma Jolanda era la sola che entrasse in casa loro. Ripensandoci ora, le sembrò che passasse più tempo con loro che non a casa propria.
In un attimo, si accavallarono il desiderio di rivederla, la fatica di cercarla, la paura di non riuscire a trovarla o la delusione di scoprirla sconosciuta e diversa da quel ricordo solare della loro infanzia.
Non poteva ricominciare tutto daccapo, e ad Amanda rispose di no, che non se la sentiva, che tutto sarebbe stato troppo complicato. Non sapeva neppure da dove iniziare la ricerca. E poi rivangare di nuovo il passato sarebbe stato tormentoso e difficile.
Amanda non insistette, ma conosceva Mathilda troppo bene. Infatti le parole della sorella, dalla telefonata in poi, avevano finito per occupare tutti i pensieri di Mathilda.
La curiosità le aveva di nuovo creato inquietudine, quando si conosce il vero dolore si è più percettivi e più disponibili ad alleviare il tormento degli altri.
Chi era lei per privare Jolanda delle sue radici? Per decidere che non dovesse condividere con loro un senso di appartenenza che certamente le mancava?
Così, spinta da quei pensieri, si mise di nuovo a scavare nel suo passato di bambina, così bene occultato per tutta la vita. Ma questa volta lo scandagliava con una nuova consapevolezza, più razionale, meno coinvolta.
[…]
Ricordò all’improvviso, come per lo squarcio in una tenda, che la madre di Jolanda era entrata un giorno a casa loro, trascinando la bimba per mano, e aveva urlato in faccia a Teresa: «Datele qualcosa da mangiare, è ora che ci pensi pure suo padre a sfamare questa creatura». Mathilda, piccola anch’essa, non aveva capito, ma il ricordo le era rimasto dentro come una pena della quale non comprendeva la ragione. Neppure quando le donne dicevano che pure Jolanda “somigliava a ‘o professore”.
Dunque, se anche Jolanda era sua sorella, le donne di suo padre erano state quattro e i figli quindici. Ma cercava di pensarci il meno possibile per non ricominciare a provare la stessa rabbia nei suoi confronti.
Preferiva cercare tra i ricordi le immagini di Jolanda. Nessuna delle due parlava molto. “Quelle due sono chiuse”, puntualizzava sempre sua madre con tono critico.
Forse, quando tra due persone s’instaura un rapporto speciale come quello che c’era tra loro, non servono tante parole. Anche nel silenzio ci si intende e ci si tiene compagnia. Loro erano così. Jolanda pareva un gattino randagio, era sempre in un angolo da qualche parte, sia fuori che dentro casa. Se Mathilda riusciva a prendere del cibo, lo divideva con lei. Glielo offriva in silenzio e lei in silenzio lo consumava.
Quando Mathilda aveva voglia di giocare bastava che le andava vicino e sfiorasse il lembo del suo vestito, Jolanda si alzava e la seguiva. Andavano nella discarica, in cerca di piatti rotti, poi alla fontana nel cortile li lavavano, e quei cocci si trasformavano per magia nei piatti del banchetto domenicale per i loro ospiti immaginari. Se riuscivano a trovare degli stracci vecchi, ne facevamo delle bambole, i loro figli. Prima facevano la testa, e poi con un pezzo di carbone preso dal focolare davano loro un’anima e la facevano sempre sorridente.
Con la fantasia inventavano di tutto, avevano il loro universo privato.
Ma il gioco nel quale erano insuperabili era la trasmissione del pensiero. Una delle due pensava a qualcosa e l’altra doveva indovinare di che si trattasse. Il premio in caso di vittoria era una delle bambole appena confezionate. Spesso Mathilda, quando era sola, si concentrava e pensava a Jolanda intensamente, e lei arrivava sorridendo.
Con quell’atavico istinto materno che le femmine hanno fin dalla nascita, nei loro giochi imitavano le donne della comune in cui vivevano. Il solo ammesso a prenderne parte era Franco, che a differenza degli altri ragazzini non si sarebbe mai sognato di prenderle in giro. Tutti i loro divertimenti avvenivano quasi in silenzio e tutto era molto semplice e sereno.

***

Dal libro Io cerco Jolanda di Adriana Maria Martino – Edizioni Albastros Il Filo, 2012 – Pag. 124

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