L’ultima canzone d’amore di Nicla Morletti, 5

[aesop_image imgwidth=”90%” img=”https://www.blogdegliautori.it/wp-content/uploads/2015/02/lultima-canzone-damore1.jpg” alt=”L’ultima canzone d’amore di Nicla Morletti” align=”left” lightbox=”off” captionposition=”left”]

[aesop_timeline_stop num=”Introduzione” title=”Introduzione”]

Una storia d’amore vera, dei giorni nostri.
Una di quelle storie che ti lasciano il segno nel cuore. Per sempre.
Rocco, uomo affascinante, musicista versatile, si innamora di Dora, dolce, bellissima.
«Voglio fare con te quel che la primavera fa con gli alberi di ciliegio» le dice un giorno.
Lei è perplessa, poi cede.
Inizia così tra i due una storia clandestina, tra rimorsi e gelosie.
Due protagonisti straordinari, un amore sofferto, la suggestione della campagna toscana ed il fascino della Versilia creano l’atmosfera magica di una grande passione.

[aesop_timeline_stop num=”Booktrailer” title=”Booktrailer”]

[aesop_timeline_stop num=”Prefazione di Mario Luzi” title=”Prefazione di Mario Luzi”]

[aesop_image img=”https://www.blogdegliautori.it/wp-content/uploads/2015/02/mario-luzi.jpg” alt=”Prefazione di Mario Luzi” align=”center” lightbox=”on” caption=”Prefazione di Mario Luzi” captionposition=”center”]

È questa una storia d’estasi amorosa, di passione, di angoscia e rimorsi fino all’imporsi del dovere: una storia non insolita, quasi rituale, ma raccontata così da vicino, con tanta affabile aderenza e con tanta vita immaginativa e partecipazione da offrire una piacevole lettura. Anche per la spigliata amabilità della prosa, felice soprattutto nella sensualità, nei quadri variabili e variopinti della natura e delle stagioni. Prendo congedo da queste pagine con la speranza di altre che le seguiranno e con il soddisfatto gusto di aver letto, intanto, questa meravigliosa favola.
Mario Luzi

***

Dicono che l’usignolo si
trafigge il petto con una
spina quando canta la
sua canzone d’amore.
Così noi. Come potremmo
altrimenti cantare.

K. Gibran

[aesop_chapter title=”Capitolo 13″ subtitle=”Rocco sedeva al pianoforte nel salone dell’ampia sua villa di campagna…” bgtype=”img” full=”on” img=”https://www.blogdegliautori.it/wp-content/uploads/2015/03/rob-hefferan.jpg”]

Nell’immagine dipinto di Rob Hefferan

[aesop_timeline_stop num=”La gita a Siena” title=”La gita a Siena”]

I ricordi si accavallavano nella mente di Rocco, facendosi sempre più nitidi, tanto da fargli sentire, ancora forti dentro di lui, i morsi della gelosia che provò quando Dora, durante una gita a Siena, gli aveva raccontato di come aveva conosciuto Mario, suo marito…

In un tranquillo pomeriggio di maggio, con il cielo sereno e le crete senesi ridenti per i colori delle ginestre, delle robinie e delle sulle in fiore, Rocco sedeva al pianoforte nel salone dell’ampia sua villa di campagna.
Stava componendo un brano musicale, una canzone d’amore per l’esattezza, quando squillò il cellulare.
«Pronto?».
«Sono io, Dora».
«Ciao, come stai? Scusami se parlo a bassa voce, puoi aspettare un attimo, il tempo di dare un’occhiata in giro per vedere se in casa c’è qualcuno?».
«Va bene».
Rocco, furtivamente, vagò per le stanze come un furfante che entri in un’abitazione per rubare. Tutto era silenzio attorno e non c’era anima viva.
Riaccostò il cellulare all’orecchio e riprese la conversazione interrotta.
«Fortunatamente sono solo».
«Ho voglia di stare con te, possiamo vederci stasera?».
«Dove?».
«Potrei venire a Siena. Mario non c’è».
«É andato forse a sciare con gli amici nel mese di maggio?».
«Dai, non essere sarcastico. Ha un impegno di lavoro. Allora ci vediamo?».
«Certo. Va bene a San Domenico alle ventuno?».
«Ci sarò».
«Adesso però devo lasciarti, sento dei rumori, qualcuno sta rientrando».
Era Rossella, gaia e sorridente, aveva in mano un mazzo di fiori di campo.
«Ti piacciono?» chiese a Rocco, mostrandogli il fascio.
«Sono splendidi».
«Li ho raccolti in un prato».
«Dov’è Andrea?».
«Sta giocando con il cane di Clara».
«É possibile cenare un po’prima delle altre sere?».
«Perché?».
«Ho una riunione di Consiglio al Club degli Amici della musica».
«Dovrò dunque affrettarmi a preparare qualcosa da mangiare».
«Per me va bene una mozzarella e un po’di prosciutto».
«D’accordo».
Rocco vide Rossella entrare in cucina. Sentì rovistare e poi aprire il rubinetto dell’acqua. Cercò di comporre altre note, ma era distratto, pensava alla serata che avrebbe trascorso con Dora. Una specie d’ansia lo assalì. Si alzò e decise di fare alcuni passi in giardino in attesa dell’ora di cena.

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i-giorni-della-rosa

Alle ventuno Rocco si trovava in piazza San Domenico a Siena. Seduto al volante del suo fuoristrada, parcheggiato in un angolo, aspettava Dora.
Era già quasi buio, ma qua e là, tra le fronde degli alberi, si scorgeva un lembo di cielo rossastro.
C’era poco traffico e la città aveva già tutte le sue luci accese. Era un’ora malinconica e struggente: il momento che prelude agli incontri d’amore.
E lei arrivò, a bordo della sua Clio rossa.
Il cuore di Rocco esultava e trepidava al tempo stesso.
«Dove ci porteranno queste nostre follie?» disse più tardi a Dora, mentre la teneva stretta tra le braccia nell’abitacolo della sua macchina.
«In paradiso» rispose lei, semplicemente. E si baciarono. In quella notte senza luna e senza vento percorsero, con la Land Rover, chilometri di strada, senza una meta precisa. Parlarono dei loro sogni, delle loro aspirazioni, di Andrea, di Rossella e di Mario. La campagna senese, avvolta dalle tenebre, era magica e misteriosa. Solo qualche luce sparsa qua e là.
«Quando hai conosciuto Mario?» domandò Rocco a Dora.
«Fu uno strano incontro: avevo vent’anni. Insieme ad alcune mie amiche avevamo deciso di partecipare ad una gita organizzata dal parroco del nostro rione. La destinazione era il castello di Brolio. Mi avevano incuriosito certe storie che si narravano a proposito di questo avito maniero e del suo vecchio proprietario: il Barone Bettino Ricasoli, divenuto oggi il principe degli spettri senesi. Esponente di rilievo del Risorgimento, divenne Presidente del Consiglio dopo la morte di Cavour. Amava talmente le sue terre, che ancora oggi non si decide ad abbandonarle. Si dice che nelle notti di plenilunio si senta il galoppo del suo cavallo attorno alle mura del castello. Taluni affermano di averlo visto cavalcare addirittura sui bastioni. La servitù poi è pronta a giurare che il fantasma si aggiri ancora per le stanze.
Nel Chianti e nel Valdarno è ancora vivo il ricordo del Barone Bettino: era un personaggio fiero e deciso, duro con se stesso, con i familiari e con i contadini da cui pretendeva obbedienza e sottomissione assoluta.
In passato alcuni eminenti uomini di fede effettuarono anche un esorcismo, confinando la salma del Barone in quattro metri di terra nel profondo dirupo dell’Ancherona, dove non arriva neppure il suono delle campane. Ma in certe notti lo spirito del Ricasoli riesce a liberarsi e si sente il suo gemito in una località che dal castello porta a San Gusmé. Qualcuno sostiene di averlo visto addirittura nel bosco in groppa al suo cavallo bianco, seguito da una schiera di cani infernali.
Affascinate da questi strani e magici racconti, le mie amiche ed io partimmo dunque in pullman alla volta di Brolio. E fu nel giardino del castello, tra piante, siepi e alberi antichi, che vidi Mario per la prima volta. Se ne stava con alcuni suoi amici seduto sul muretto, quando ad un tratto i nostri sguardi si incrociarono.
Dovevamo ancora visitare la chiesa con la cripta, ed il parroco ci invitò a seguirlo. Eravamo un gruppo di circa venti persone. Le mie amiche rimasero indietro, io mi voltai e quel ragazzo, ancora seduto a cavalcioni del muretto, continuava a fissarmi. In quell’atmosfera misteriosa, dove ogni sasso, ogni torre, ogni cespuglio pareva avere un’anima e dove si aveva l’impressione di essere osservati da strani occhi nascosti dietro alle tende delle finestre, anche lo sguardo di quel ragazzo mi sembrò magico.
Il giorno dopo mi telefonò dicendo di essere il conte Ricasoli. Mi arrabbiai. Poi gli domandai come avesse avuto il mio numero di telefono. Seppi che glielo aveva dato una delle mie amiche la mattina della gita. Me la presi anche con lei. Si difese dicendomi che le sembrava un ragazzo così garbato e pieno di fascino.
Non mollò: continuò a telefonarmi e così una sera accettai l’invito di uscire con lui che abitava a Firenze, a pochi isolati da casa mia».
«Ti prego basta, non parlarmene più. Ho capito» disse ad un tratto Rocco. Poi cambiò argomento.
«Ci troviamo nelle vicinanze di San Gusmé. Forse incontreremo il Barone Ricasoli».
«La notte è buia ed io ho un po’di paura» aggiunse lei.
«Stringiti a me».
Si fermarono in una radura in mezzo al bosco. Si abbracciarono in quella notte senza luna, mentre sembravano aleggiare nel buio antiche leggende di fantasmi che si aggirano tra resti di antiche torri medievali e cascinali sperduti in mezzo alla campagna.
Rocco le offrì le sue braccia protettive e Dora chiuse gli occhi, mentre lui le posava il viso sul petto.
In quella notte stregata dove sogno e favola si mescolavano alla realtà.

[aesop_chapter title=”Capitolo 14″ subtitle=”Tra una bugia e l’altra, con il batticuore, riuscirono a organizzare un’ennesima fuga insieme.” bgtype=”img” full=”on” img=”https://www.blogdegliautori.it/wp-content/uploads/2015/03/caminetto.jpg”]

[aesop_timeline_stop num=”La casa in montagna” title=”La casa in montagna”]

Nel mese di giugno Dora ereditò da una lontana parente, che aveva conosciuto a malapena da bambina, una casa in montagna. E decise di andarci con Rocco.
Tra una bugia e l’altra, con il batticuore, riuscirono a organizzare un’ennesima fuga insieme.
Erano felici quel giorno e cantavano mentre il fuoristrada di Rocco si inerpicava per l’erta strada in salita che conduce alla vetta dell’Amiata. Tutt’intorno castagni e conifere. E poi pietre, sassi, torrenti gorgoglianti tra le rocce, all’ombra di secolari alberi. In lontananza la cima della montagna; si ergeva maestosa come per incontrare il cielo, mentre bianche nuvole erano sospese nell’aria.
Finalmente, nei pressi di Arcidosso, Dora lo vide, arroccato su un monte, con le antiche case addossate l’una all’altra: il vecchio paese. Le finestre aperte sembravano tanti occhi sul modo ed i tetti a spiovente, con i camini dall’aria civettuola, parevano dominare, da lassù, l’intera vallata: i campi di grano, i vigneti e i frutteti.
Si trattava di un antico borgo medievale, costruito sullo sperone di una roccia, circondato da mura e fortificazioni.
Costanza, la prozia di Dora, aveva abitato sempre lì, in mezzo al verde e ai boschi. Non si era sposata e non aveva avuto figli. Proprietaria di vasti appezzamenti, aveva vissuto dei prodotti della terra che i coloni coltivavano a mezzadria. Poi, anche per lei, il viaggio su questa terra era terminato e le sue spoglie adesso riposavano nel tacito cimitero di campagna, all’ombra dei cipressi. Tutto ciò che in vita le era appartenuto, dopo averlo ereditato dai genitori, ora era di Dora. Anche quella misteriosa casa che sorgeva nella parte più alta del paese, di cui la pronipote aveva sentito tanto parlare da bambina.

La piazzetta del piccolo centro era deserta: un palazzo antico con una banderuola metallica che girando su se stessa indicava la direzione del vento, la chiesa, la bottega del ciabattino, il panificio. Su un terrazzo, una donna anziana era alle prese con un congegno che faceva girare lo spiedo in cui erano state infilzate carni da cuocere. E nell’aria il profumo del pane fresco si univa a quello intenso del fumo e dell’arrosto.
Rocco e Dora, mano nella mano, si inoltrarono per gli stretti vicoli. Si sentivano leggeri e trasparenti come l’aria.
«Sono emozionata».
«Ed io curioso di vedere la casa».
«Ma non hai fame?».
«Molta».
«Ti piace questo posto?».
«Mi piacerebbe viverci con te. Noi due soli».
In una bottega di alimentari comprarono delle focacce ed alcuni biscotti all’anice. Domandarono al droghiere quale via avrebbero dovuto percorrere per giungere alla dimora di Costanza Leoni. E lui, mentre confezionava i pacchetti, dette loro indicazioni molto esaurienti, come ben sanno fare coloro che vivono in paesi di montagna dove tutti si conoscono.

L’orologio della piazza scandì dodici rintocchi: mezzogiorno. Rocco guardò il cielo, e le nuvole gli sembrarono così vicine da desiderare di toccarle.
Finalmente la videro: la casa. In via della Speranza, numero sette. Con la facciata di pietra, i lampioni di fine secolo, le fioriere arrugginite, le persiane corrose dal tempo. Sembrava l’ala di un antico castello. Era misteriosa e affascinante, avvolta dal silenzio di quella mattina di tarda primavera, con il vento che portava dalla valle fragranze di fiori sconosciuti.

Quando Dora infilò la chiave nella toppa, si accorse che la mano le tremava un po’per l’emozione.
Rocco le cinse la vita con le braccia e lei sentì il suo tocco rassicurante.
«Che tipo di donna era Costanza?».
«Non ricordo. Avevo pochi anni quando i miei genitori ed io venivamo quassù d’estate a trovarla. Poi il tempo è passato, ci siamo persi di vista, io sono cresciuta e sai com’è la vita… Ci si conosce, ci si incontra, poi capita che ciascuno segua la propria strada. Così è successo a me. La mamma mi diceva che Costanza adorava i miei riccioli biondi, li pettinava, li curava. Cantava per me dolci ninnananne per farmi addormentare nella culla».
«Come la capisco» aggiunse Rocco.

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Difficili, impossibili amori

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Il portone si aprì cigolando e i due innamorati entrarono in quello che era stato un tempo il regno di Costanza.
«Che avventura!» esclamò Rocco, mentre a tentoni, nell’oscurità della casa, cercava di aprire le imposte. Finalmente la luce entrò, illuminò l’ampio ingresso, il soggiorno, la cucina, le vetrine antiche. Dette respiro e vita alla casa rimasta a lungo tempo addormentata.
Dora si guardò attorno stupita. Quella dimora era così bella, calda e accogliente! Nel salotto ammirò le specchiere, le poltrone e i mobili dalle decorazioni fiorite e squisitamente eleganti. Ovunque statuette di porcellana, piatti decorati, trine, merletti, ricami. E le tendine rosa alle finestre. Era incantevole, seducente, pareva una casa magica, come quelle descritte nelle fiabe. Sprigionava amore. Pur essendoci un po’di polvere e qualche ragnatela, tutto era ben ordinato e disposto come se qualcuno dovesse tornare da un momento all’altro. Era come se la proprietaria non se ne fosse andata via per sempre: il bricco dell’acqua sulla stufa, sul tavolo la teiera e le tazze di porcellana cinese, un cesto di legna da ardere accanto al caminetto.
«Questa è la casa dei nostri sogni!» disse Rocco stringendo Dora a sé.
«É bello essere qui, con te».
«Costanza deve essere stata una donna stupenda».
«Lo penso anch’io».

Incuriositi, visitarono il resto dell’abitazione. Una scala a chiocciola di legno li condusse al piano superiore dove c’era la camera da letto. Dopo aver spalancato la portafinestra che si aprì sul balcone, furono inondati dalla luce del sole e dal profumo dei fiori nel vento. Il panorama da lassù era magnifico: attorno i tetti delle case con le tegole rotte, le antenne, i parafulmini e i fili di fumo che uscivano dai camini. In lontananza la vetta dell’Amiata, castagneti, uliveti, vecchi mulini e, più in basso, una pieve, con la tortuosa strada che portava nel bosco. Un magico mondo quello visto dall’alto. Si alzò il vento e a Dora parve di volare. Rocco le afferrò la mano e gridò: «Siamo liberi come l’aria!». E si baciarono su quel terrazzo di due metri per tre, che a loro sembrava la vetta del mondo, provando un moto d’ebbrezza.

Rientrarono, mentre il vento sibilava attraverso le fessure.
In camera, sul comò, c’era un portaritratti d’argento con l’immagine della padrona di casa, o così almeno Rocco e Dora credettero.
Una foto in bianco e nero, ingiallita dal tempo, tra fiocchi e mazzi di fiori secchi.
Sorrideva Costanza, con i capelli raccolti sulla nuca e l’abito scuro lungo fino alla caviglia.
Dora rovistò nei cassetti in cerca di ricordi: collane di perle, boccette di profumi antichi, spazzole per capelli.
Aprì l’armadio e passò in rassegna gli abiti: uno ad uno. Tirò fuori cappelli, veli, ombrellini di organza. Poi, ad un tratto, tra la biancheria e i sacchetti di spigo, vide una strana busta. Dentro c’era un biglietto:

Aspettami ed io sarò di nuovo in questa nostra alcova d’amore.
Tornerò a baciare le tue labbra e le mie mani si uniranno alle tue, il tuo respiro al mio. Qui, con te.
Gino

«Rocco, vieni a vedere!» esultò Dora. Era felice: ora sapeva qualcosa di più riguardo alla misteriosa donna che le aveva lasciato il suo magico regno.
«Cosa c’è?».
«Guarda qui».
Rocco afferrò il biglietto e lesse.
«Anche Costanza ha vissuto una intensa storia d’amore» disse poi, sorridendo.
«Perché allora non si è mai sposata?».
«Chissà, forse Gino non è più tornato, oppure apparteneva già ad un’altra donna…».
«Dunque si incontravano qui, in questa camera, nella loro alcova d’amore, come lui la chiama».
«Aspettami ed io tornerò a baciare le tue labbra…».
«Che favola meravigliosa».
Rocco si avvicinò di più a Dora, la guardò negli occhi e la strinse a sé teneramente. Gli abiti pian piano scivolarono a terra e i due innamorati si ritrovarono abbracciati fra i pizzi e i merletti di quel magico letto che aveva accolto in passato i due amanti di altri tempi.
In quella camera dove c’era profumo di essenze, di ricordi e poesia..

[aesop_chapter title=”Capitolo 15″ subtitle=”Cessate le piogge, i fontanili, gli stagni e le gore si prosciugarono; la terra giacque silenziosa e assetata, cedendo ai cocenti raggi del sole.” bgtype=”img” full=”on” img=”https://www.blogdegliautori.it/wp-content/uploads/2015/03/tamara-de-lempicka-dormeus.jpg”]

Nell’immagine: La Dormeus di Tamara de Lempicka, particolare

[aesop_timeline_stop num=”Ritorno a Forte dei Marmi” title=”Ritorno a Forte dei Marmi”]

L’anno scolastico terminò. Le scuole si chiusero, Andrea fu promosso a pieni voti. Giugno tinse la campagna di caldi e amabili colori: i papaveri selvatici arrossarono i campi di grano, i fiordalisi li sfumarono di azzurro; poi fu la volta del bianco delle rose di macchia e del viola dei gigli selvatici aggrappati ai pendii. Ben presto però, nei campi rimase solo il residuo degli steli e delle paglie della mietitura e, tra le stoppie secche, le formiche radunavano le loro provviste.
Cessate le piogge, i fontanili, gli stagni e le gore si prosciugarono; la terra giacque silenziosa e assetata, cedendo ai cocenti raggi del sole.
E giunse il giorno della partenza per il mare.
Nelle stanze della villa di campagna c’era un certo fermento. Rossella era alle prese con borse, valigie, pacchi e pacchetti. Questo abito sì, quello no, forse è meglio quello azzurro.
«Rocco!» gridava. «Vieni un po’qua, tu quale vestito sceglieresti?».
«Quello che ti piace di più. Ma non ti sembra di portare troppi indumenti?».
«Non vorrai mica che sembri una stracciona!».
«Adesso non esageriamo».
«Prenditi anche qualche maglione piuttosto, la sera potrebbe fare freddo».
«Non ti preoccupare, a me bastano poche cose».
«Per favore incomincia a mettere un po’di borse in macchina».
«Babbo, non dimentichiamoci il computer!» s’intromise Andrea.
«L’ho già riposto nel portabagagli».
«E il portadischi?».
«Ma quante volte devo ripetere a te e a tua madre che non partiamo per l’Australia! Non staremo fuori chissà quanto e non è necessario portarsi dietro la casa intera».
«Dov’è finito il mio portacipria, maledizione!» gridava sempre più inquieta Rossella. «Ne sai qualcosa Rocco?».
«Non mi sono mai truccato».
«Non fare lo spiritoso».
«Dobbiamo prendere anche, non so, il portafiaschi, il portadolci, il portacicche, il portaceste, il portachiavi od altro?» domandò spazientito mentre scendeva le scale con le valigie in mano.
Finalmente Rossella chiuse porte e finestre, salutò la signora Clara, fece le ultime raccomandazioni al giardiniere, infine raggiunse Andrea e Rocco che stavano finendo di sistemare i bagagli nel cofano posteriore dell’automobile.

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Nelle mani del vento

nelle-mani-del-vento

In quella mattina di luce e di allegria, il sole splendeva alto in cielo. Nelle aiole i fiori rosei degli ibischi si confondevano con i petali rossi delle rose, mentre il glicine, aggrappato saldamente al muro di cinta, faceva ricadere le sue ciocche violacee sulle chiome degli oleandri sottostanti. La buganvillea, dai rami spinosi e dai fiori rosa – porpora, piccoli e folti, si era arrampicata sull’abete più alto, mentre nei vasi di terracotta, al centro del giardino, occhieggiavano maliziosamente le begonie, le petunie e i rossi gerani. Le fronde del salice, oscillando nell’aria, accarezzavano le panchine di pietra e le foglie della siepe d’alloro, ricche di sostanze aromatiche, si muovevano appena al vento leggero, unendo il loro profumo a quello dei folti cespugli di lavanda.
Rocco mise in moto la macchina che lentamente si mosse in discesa, all’ombra dei secolari pini.
La villa liberty, dall’alto della collina, fece capolino, con la sua facciata color rosa antico, tra il verde degli alberi e degli oleandri in fiore, poi scomparve. Pareva una dimora d’altri tempi: romantica, seducente, dall’aria sognante com’era. Nel cuore di Rocco il desiderio inconfessabile di rivedere Dora. Appassionatamente.

Arrivarono a Forte dei Marmi a mezzogiorno. E presto furono a casa. L’edera, con le sue radici avventizie ed i frutti a bacca scuri, si era attaccata tenacemente al muro, e il vialetto era coperto dagli aghi dei pini.
Mentre Rossella spalancava le finestre per far entrare i raggi del sole, Rocco, scaricando i bagagli dalla macchina, sbirciava la casa accanto. La Volvo grigia del marito di Dora era parcheggiata lungo la strada, di fronte al Bagno Capri: il loro stabilimento balneare.
Andrea sul terrazzo abbracciava con l’occhio la distesa del mare.
«Scendi giù a prendere i tuoi pupazzi, il pallone e i giornalini di Topolino! E non ti sporgere dalla ringhiera, è pericoloso!» gli ordinò Rocco.
«Arrivoooo!».
«Non correre troppo e stai attento a non cadere per le scale!» raccomandò la madre al figlio, mentre, affacciata alla finestra, osservava come il lungo inverno aveva ridotto il giardino.
Rocco, finalmente, dopo aver scaricato tutti i bagagli, ispezionò con cura l’interno della Rover e si accinse a chiudere a chiave la portiera. Apparve Dora sul terrazzo della casa accanto. Abbronzata, affascinante, bionda. E lui la vide e le fece un cenno con la mano.
«Chi è quella donna?» chiese Andrea, con un fascio di giornali in mano.
«Una vicina di casa».
«Bella, non ti pare?».
«Una come tante».
«Chissà se ha dei bambini, potrei farmi nuovi amici».
«Non lo so».
«Perché non glielo domandiamo?».
«Adesso?».
«No, più tardi, oppure domani…».
«Come vuoi».
Rocco cercava di fare l’indifferente.
«Ma ora andiamo a mangiare qualcosa, la mamma ci aspetta». Prese per mano il figlio e insieme si incamminarono lungo il vialetto che conduceva alla porta di casa. Senza più dire una parola.

***
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[aesop_timeline_stop num=”Nicla Morletti” title=”Nicla Morletti”]

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Nicla Morletti, il profilo dell’autrice e le sue opere

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