Storie borderline della mia pipa di Enrico Magni

Storie borderline della mia pipa di Enrico Magni

Da: Il viaggiatore

Da pigro reporter incallito inzuppato dal fumo della pipa e da un etereo profumo ascolto con interesse il racconto dell’uomo di fronte che mi scaraventa in un fiato il frammento postumo del lontano inverno nazifascista del quarantaquattro.

– Ci nascondemmo dietro la scarpata della riva quando i tedeschi appiccarono il fuoco al fienile, bruciarono la casa, passammo la notte nel fango e la storia della mia famiglia svanì tra le fiamme.
I porci volevano mio padre, avevano già preso due fratelli. L’odore del fumo inondò la campagna.
Terrorizzati ci nascondemmo fino al mattino. Fu una notte tremenda.
Il freddo, l’umidità, il tremolio dei denti, le lacrime di mia madre, la mano dello zio si impressero nella memoria. E’ impossibile dimenticare quella sera.
Al mattino trovammo solo macerie, non c’era più nulla, con un carro costeggiammo l’argine del fiume, ci incamminammo nella pianura tra la nebbia maledetta.
Avevo solo otto anni ed ero già un disperso. Fu l’inizio di una lunga odissea.

Se ne sta lì, seduto sulla sedia scomoda, faccia contro faccia, attorcigliandosi le mani, riparandosi il volto, infossandosi nelle spalle.
Soffre, il volto è solcato da incise rughe, si muove in continuazione, ogni tanto tossisce, a cinquant’anni sembra ancora un adolescente.
Il suo narrare racconta di un passato lontano e mi porta in altre terre, luoghi dove incontro personaggi sconosciuti. Con un guizzo acchiappo al volo la mosca che sta scappando al contatto del palmo della mano. La narrazione mi trasforma in un viaggiatore che sale e scende dagli scalini del treno.

– Un parente del nonno ci ospitò fino alla fine della guerra. Mio padre partì per la Germania nazista e restai solo con mia madre.
Oggi, quando lo vado a trovare, riemergono delle scene che cerco di cancellare, di negare ma sul volto di mio padre si sono incorniciate molte ombre.
Eravamo in miseria e ogni giorno eravamo in pericolo, la cosa più importante era sopravvivere.
Mia madre abortì e soppresse il bambino.
Fu forse per colpa mia?
Da allora il dubbio mi tormenta, mi crea angoscia. Ho sempre paura di morire. Prima di addormentarmi mi assale l’ansia costellata da immagini di morte. Ho il terrore di chiudere gli occhi, cerco di stare sveglio, quando sto per addormentarmi scatto e il corpo trema.
Eravamo dei contadini, dei mezzadri, io andavo a scuola. Tutte le sere si pregava per ringraziare l’Altissimo per essere ancora vivi. In quell’ultimo anno di guerra la morte era di casa. La paura di morire da un momento all’altro, solo l’ascolto dell’impulso come atto estremo per esistere.
In quella confusione e angoscia generalizzata mia madre ebbe dei rapporti con suo cugino.

Scruto dal finestrino i paesaggi della pianura padana, così estesi e lunghi, con gli alberi potati all’apice del tronco, l’amico di viaggio mi sollecita una sensazione di morte.
Penso a quella donna, alla solitudine, ai bisogni distrutti dalla guerra barbara e folle che causa separazione, sofferenza, abbandono e stende un alito nebbioso di vita.
Chissà quante contorsioni, tormenti prima di abbandonarsi in mezzo ai covoni di fieno, il suono delle sirene tra i filari dei pioppi. Un atto d’amore è sempre un atto di vita. Una notte di luna non può trasformarsi in un’apocalisse perpetua.
Stavo favoleggiando una scena d’amore, distolgo lo sguardo dal finestrino e mi concentro ad ascoltare il viaggiatore che continua a tormentarsi.

– Un giorno, non ricordo, la memoria vacilla, due carabinieri la portarono via, i miei parenti non dissero nulla, qualcuno l’aveva denunciata. Per due anni scomparve senza che sapessi qualcosa.
Lo stato fascista che aveva costruito campi di concentramento, che aveva impestato l’aria di morte, di terrore, che aveva legalizzato la caccia all’ebreo, si avvalse del diritto di condannare mia madre per aver abortito sotto le bombe.
A soli nove anni ero stato espropriato di tutto, quando la rividi non era più la stessa, i suoi occhi erano intrisi di ricordi violenti. Era ormai diventata vecchia, prossima al passaggio.

La chiama madre ma preferirebbe non nominarla, se fosse morta nel ‘44 ne avrebbe un buon ricordo, una buona immagine.
Per un credente, come è lui, è difficile accettare certi sentimenti. Sua madre assomiglia alla Maddalena, alla quale è doveroso lavare i piedi ma non averla per moglie.
Non può negarla, rinnegarla.
Il viaggio incomincia a presentare dei pericoli, dei burroni, delle difficoltà. Sono tentato di scendere, di lasciarlo, sento la pesantezza e la tortuosità della compagnia, è un compagno di viaggio strano, decido di continuare.

– Era una sera d’inverno, lei stava preparando la cena sul camino. Allora, cinquantanni fa, nelle cascine della bassa padana, i cibi erano cotti sul camino, mia sorella mi scaraventò la minestra di latte addosso, mi prese in braccio e accarezzandomi mi tenne tutta la sera. Mi tenne stretto al seno, mi scaldò col suo corpo.
Lo sento ancora. Delle volte quando faccio l’amore riemerge quella sensazione. Attimi.
Ero l’ultimo di sette. In estate le finestre erano aperte e sentivo il rumore delle poche auto che passavano oltre il fiume. Il fiume era tranquillo. Mi capitava di alzarmi a guardare le stelle, loro dormivano, dovevano alzarsi presto per mungere le mucche. Sono passati molti anni.
Ero bravo a scuola. I miei volevano che studiassi. Maledetta guerra. Ho sempre rimpianto il fatto di non aver potuto studiare, mi sarebbe piaciuto fare il veterinario o il medico. Mi piaceva studiare, maledizione. Mi è andato tutto male. La miseria è brutta, ti rende infelice.
Ero in cortile a giocare quando la portarono via. La guardai in silenzio.
Rimasi solo. Decisero, non so chi, di mandarmi in una comunità che era sorta lontana dalla mia terra disegnata dai pioppi, dovevo stare per poco tempo invece durò vent’anni.
Due miei fratelli morirono in Germania.
Le fiamme della cascina mi ricompaiono nei sogni.
La mia infanzia finì presto.

Mi stacco un attimo dall’ascoltare. Vedo quei luoghi, le piantagioni, la pianura.
Nella sua mente i paesaggi sono immutati. E’ come se ricercasse in quella costellazione qualcosa che indichi la sua identità.
Tutto è così diverso. Sulla sua pelle porta lo scotto della minestra, del freddo, del chiaro di luna, nelle sue viscere, ricerca il solco della terra, il profumo della zolla e il mutare delle stagioni.

***
Storie borderline della mia pipa
di Enrico Magni
2014, 163 p., brossura
Psiconline
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Il commento di NICLA MORLETTI

Enrico Magni, psicologo, psicoterapeuta, sessuologo, ipnologo, specialista in Criminologia e scrittore ci propone una raccolta di racconti veri, di vita vissuta, che inducono alla più attenta riflessione. Cosa accade nella mente e nell’anima nel quotidiano vivere? Quanto può essere fragile l’uomo e se di fragilità si può parlare, da dove trae origine e in quale contesto? L’autore ci offre la chiave per entrare nell’inconscio e scoprire i segreti nascosti nella psiche attraverso le storie narrate ad arte in questo prezioso libro.
Sei racconti autentici nati dal caso e dall’incontro raccontati da un reporter o da uno psicoterapeuta danno forma all’informe, svelano ansie, paure, ossessioni, disagi, turbe dell’anima. Emerge improvvisa la forza del subconscio con il bagaglio delle sue repressioni e pulsioni che sembrano esplodere da un momento all’altro. L’autore scava a fondo nell’anima dei personaggi, osserva, ascolta, riflette e trova una causa, scopre un conflitto e le storie prendono vita in tutta la loro chiarezza, la verità viene a galla, ciò che era sepolto rinvenuto. L’abilità di Enrico Magni è sorprendente nella stesura del suo libro, nella certezza di ciò che narra, tutto trae inizio da qualcosa, da un evento particolare e pian piano il cerchio si chiude, alzando il velo sul mistero. Si riamane attratti e catturati dalle vicende narrate e la curiosità, il desiderio di saperne di più accresce la suspense. In uno scompartimento ferroviario un uomo racconta al reporter inzuppato dal fumo della pipa, il suo lontano inverno nazifascista del quarantaquattro quando i tedeschi appiccarono il fuoco al fienile, bruciarono la casa e la storia della sua famiglia svanì tra le fiamme. Gianni, in un incidente imprevisto durante una scalata in montagna, rimarrà segnato dallo spavento fino all’insorgere di una psicosi ossessivo – maniacale. Una adolescente, avendo dimenticato il suo diario sulla panchina dei giardini dove si incontra con il reporter, svelerà all’amico silenzioso un segreto che riguarda la sua precoce vita affettiva e sessuale in cui è coinvolto l’insegnante di cui si è innamorata. Carla invece vive sulla propria pelle la violenza del maschio. Seguono storie maledette di carcerati e la triste fine di quattro amici che si lasciano coinvolgere dal perverso gioco delle sostanze e da quello della loro mente.
Enrico Magni, abile maestro di penna e di pensiero, grazie a questo mirabile libro ci fa attraversare gli impenetrabili meandri della mente e penetrare nel cuore delle cose con l’abilità di chi è destreggiato a scavare nella vita e nei sentimenti come solo uno un grande psicoterapeuta può fare.

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