Le nozze di Pupa di Enrica Teresa Vignoli

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7 Agosto 1950 –

La forte emozione le impediva di respirare ma non di accorgersi che nessuno, in quel buio, avrebbe notato il suo vestito. Aveva scelto un taglio classico, un tailleur come allora andavano di moda, ma non vistoso, non certo un vestito da sposa: giacca aderente, tre bottoni, gonna stretta sotto il ginocchio; picchè, la stoffa, picchè cordonato bianco. In testa portava soltanto un triangolo di vero pizzo e ai piedi eleganti decolleté, basse “cenerentole” bianche senza tacco alla moda di “Sabrina” con la punta stondata.
Senza tacco: finalmente una moda che non la faceva sentire troppo alta e si sbiadiva così un antico complesso che l’angosciava da quando era bambina: … a scuola sempre l’ultimo banco.
Grazie al lavoro si era pure comprata una trousse di tartaruga vera. Piccola scatola rigida che nascondeva uno specchio, era la prima reale borsa, una borsa elegante, con piccoli segreti da conservare per un’altra volta. Non l’avrebbe forse già pensata in vista sul comò in camera di sua figlia, affetto e ricordi per sempre conservati nella piccola scatola color arancio? Una scatola o una borsa … la moda ha sempre dei misteri.
All’alba di quel 7 agosto del ’50, un lunedì, mentre assicurava nelle minuscole asole con decisi piccoli gesti, che rivelavano la caparbia consapevolezza di ciò che aveva finalmente conquistato, i bottoncini rivestiti di cotone bianco della camicetta, si andava delineando nello specchio la snella figura non più acerba, ma un po’ angolosa per la faticaccia degli ultimi tempi, di una giovane donna in bianco che invero non pareva somigliarle più di tanto. Pupa lanciava veloci occhiate allo specchio quella mattina: nel giorno più importante della sua vita non aveva avuto che qualche minuto in più per aggiustare la sua figura, fino ad accettare, con non poca approssimazione, l’immagine riflessa come copia di quella che aveva dentro di sé. Aveva fatto del suo meglio, ma lui avrebbe apprezzato?
Pochi minuti dunque: tra le quattro e le sei di mattina aveva dovuto pulire le scale, sistemare le piante ricevute in regalo e che non aveva potuto portare in chiesa. Neanche un fiore. Questi erano i patti. Aveva preparato le valigie per quella che sarebbe stata finalmente una vera fuga d’amore e accomodato con cura accanto alla propria la biancheria che aveva comprato e fatto cucire per il suo uomo; l’uomo che portava con sé, quel giorno, soltanto la sua forza e il suo infinito amore.
Aveva persino controllato che non mancasse niente sul tavolo del rinfresco, già preparato dalla sera precedente: pasticceria secca e salatini; i suoi risparmi non le consentivano di più.
E dopo tutto questo: lo specchio. Non era grande come quello di mamma o forse allora era piccola lei e le sembrava immenso, poiché entrambe vi entravano per intero e Pupa pensava che mamma era bella e sognava di veder crescere la propria immagine nello specchio accanto a quella di lei, fino al giorno che le avrebbe contenute entrambe, alte uguali, eleganti e fiere. Non era andata così.
Picchè bianco, il migliore. Era venuto fuori come per miracolo dalla polvere delle stoffe “di classe” del suo principale, davvero più adatte a funerali, appuntamenti di lavoro per grigi uomini d’affari, monotoni té pomeridiani di benestanti signore, aperitivi galanti dietro i separé dei più raffinati caffè di una cittadina di provincia.
Bianco picchè di cotone si era alfine materializzato, frizzante tocco di vita per una primavera ancora in boccio, massimo sforzo di chi con il cuore infranto e il portafoglio in lacrime vedeva così andar via il suo migliore impiegato, il suo braccio destro, la forza nascosta dietro l’afrore di muffa delle pile di stoffa del suo magazzino, quella che, era difficile per lui ammetterlo, fin nel momento in cui la stava perdendo, non era che una ragazzina… o forse una donna.
Certo lui non aveva esitato fin dall’inizio a rivolgerle più di uno sguardo indecente per indovinare le minute forme a mala pena coperte dal tessuto cedevole di un unico vestito e ad avvicinarsi per cogliere il profumo di bucato di bianchi calzini di bimba dentro gli stessi sandali in ogni stagione; poi lo aveva stupito quella ragazzina timida ma tenace che, nel mondo degli uomini maturi disposti più a spogliarla con gli occhi che ad ascoltarla parlare, aveva saputo imporsi con l’intelligenza, la precisione e l’integrità che a loro difettavano, fino a costringerli a riconoscere che sì ci sapeva veramente fare con i numeri. E così si era infine ritrovato disperato con quella stoffa bianca in mano e niente per convincerla a restare e a non privarlo per sempre di bravura, impegno, serietà e insieme grazia, cortesia e due magnifici occhi verdi… l’aveva desiderata, ragazzina, con la cupidigia volgare di un uomo che poteva esserle padre; l’amava, donna, di una passione rispettosa e profonda quanto impossibile che gli rendeva atroce vederla per sempre andar via.

***

Dal libro Le nozze di Pupa di Enrica Teresa Vignoli.

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