Ho contato le settimane, poi i giorni, infine le ore e i minuti che mi hanno separata da Carlo. È inutile negare che nel tempo che ha sospeso la routine dei nostri incontri credo di aver capito molte cose. Pensavo di essermi innamorata di lui, forse fin dal primo giorno che l’ho visto, lì nel bar, mentre sfogliava il giornale con l’auricolare del telefonino all’orecchio e beveva il suo caffè.
Pensavo, soprattutto, che questo era potuto accadere per colmare un vuoto che qualcun altro aveva lasciato nella mia vita.
Sarebbe stato facile per me dire che era stato Ettore perché in parte è così, ma solo in parte, dal momento che, per il resto, ho fatto tutto da sola. Nelle settimane trascorse al mare ho cercato, e
posso chiamare persino Dio a testimone, di fare nuovamente spazio in quel vuoto, perché Ettore tornasse a riempirlo, consentendomi di poter dire a me stessa che tutto ciò che mi aveva spinta verso Carlo aveva avuto un senso e che, finalmente, potevo cancellarlo dalla mia vita.
Una sera, una di quelle poche sere in cui riuscivamo a restare soli, sulla terrazza della casa al mare, mi sono avvicinata a lui e gli ho chiesto: «Ettore, ti ricordi quella volta, tanti anni fa, quando eravamo ancora fidanzati, che ce ne andammo per pochi giorni a Perugia? Trovammo da dormire in quella specie di casolare di campagna dove di notte faceva un freddo da far battere i denti. Ci addormentavamo tra quelle lenzuola gelate tenendoci stretti».
Si è voltato verso di me con l’espressione di chi non capisce nemmeno chi ha davanti.
«Sì, me ne ricordo. Ma perché me lo stai chiedendo?»
«Perché credo che quella sia stata realmente l’ultima volta in cui sono stata felice con te e perché mi manca quella felicità, al punto che vorrei essere capace di implorarti di farmi sentire di nuovo come allora».
Ettore mi ha abbracciata. Con calore, ma anche con un senso di stordimento. Del resto, non ero mai stata capace di formulare quel pensiero nemmeno con me stessa. Non penso che potesse anche solo immaginarlo.
«Ma come ti viene in mente, Emma? Addirittura “l’ultima volta che sei stata felice con me”! Lo sai che non è vero. Noi siamo molto felici, lo siamo sempre stati. Non credo che si possa desiderare più di quanto abbiamo. Una vita senza problemi, un figlio bellissimo, una sicurezza economica che, di questi tempi, non guasta. E tu vorresti farmi credere che non siamo felici? Ma guardati: io ho una moglie bellissima e tu un marito che ti adora. Siamo la coppia più invidiata e a giusta ragione».
Ho capito, tra le sue braccia, che non aveva capito niente, che il suo concetto di felicità descriveva esattamente tutto ciò che mi rende infelice, tanto da far diventare una voragine quel vuoto che Carlo è andato colmando.
Quella notte ho fatto l’amore con Ettore, il quale, galvanizzato dalla sua convinzione di avermi trasformata nella donna più felice dell’universo, in un autentico delirio di onnipotenza, si è prodotto
nel suo migliore repertorio da dio del sesso. Ma la mia testa ormai era altrove, non necessariamente con Carlo, ma comunque lontano da lì, perché la sola cosa che mi risultava chiara era quanto ormai mi sentissi fuori posto tra le braccia di Ettore. A dire il vero volevo solo che smettesse e che mi lasciasse dormire, sognare, accorciare di un giorno la mia distanza da Carlo e dal Second Life. È stata la prima volta in vita mia che ho finto un orgasmo, ma la cosa più tremenda è che Ettore non se n’è accorto.
In questi due mesi credo di aver capito che tra Ettore e me non sia finita, che a modo suo mi ami e che, se “a modo suo” non mi basta più, è perché siamo su due mondi distanti. Dunque, se lui non potrà arrivare a comprendere il mio, forse io posso penetrare nel suo, cercando di essere come lui: una che ha molto da farsi perdonare.
Credo di aver capito che sia questo il senso di ciò che io provo per Carlo, un bisogno di “sporcarmi le mani” lasciando da parte quella che sono stata o, per meglio dire, quella che io ho chiesto a me stessa di essere.
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Dal libro Second Life di Daria Scarciglia