Milena ha avuto ragione. E’ stato fin troppo facile trovare la casa, tra poche centinaia di abitazioni.
Il paese è attraversato da un’unica strada, la quale è intersecata da viuzze che si inerpicano sopra i pendii al suo interno e verso gli orti.
La strada principale conduce fino a una chiesetta, situata al centro dell’unica piazza, corredata di alcune vecchie panchine di ferro battuto ingrigito dal tempo e adornata dal soffio di insopprimibile vita e intenso profumo degli alberi di oleandro rosa.
Fa molto caldo, un calore di assoluto silenzio, interrotto dai ronzii e dalle voci degli animali che giungono dalla campagna distante.
Milena e Fabio decidono di lasciarmi. Hanno intenzione di scendere al fiume per uno dei loro giri di perlustrazione nei pressi dell’antico ponte.
Il luogo è appartato e quieto, ma la casa è abitata.
“Torneremo tra qualche ora, Vittoria, così avrete il tempo per parlare”.
E io mi aggiro sola e indecisa, misurando, tre passi avanti e tre indietro e poi daccapo, la larghezza del cancelletto di legno dipinto dal quale intravedo l’ampio e lindo cortile lastricato e coperto dal pergolato dell’uva nera, con i minuscoli acini asprigni, e la fontana antica, e in fondo il portone d’ingresso in legno scuro, socchiuso.
La casa della mia prozia, che fu dei miei bisnonni, dove mia madre nacque e visse fino all’età di diciotto anni, non è molto grande, ma situata su due piani, completamente dipinta di bianco e con la soletta ricoperta di tegole marrone.
Dalla facciata mi osservano le persiane socchiuse delle quattro finestre a balcone, con ringhiere di ferro battuto dipinte di vernice rosso scuro e abbellite con vasi di gerani rosa e bianchi, disposti in un preciso e mai sovvertito ordine: due rosa ai lati e uno bianco al centro. Per quattro. I petali e le larghe foglie verdi sembrano ancora umidi e freschi dalla quotidiana annaffiatura del mattino.
E io non mi decido a bussare. Ci provo esitando, due, tre volte, ma la mano mi ricade sulla tasca chiusa della mia borsa di tela, attraverso la quale, per farmi coraggio, accarezzo il solito quadernetto.
Mi sento come fossi giunta dinnanzi al cancello di vecchio legno dipinto dopo un estenuante viaggio a ritroso nel tempo e come se non avessi un vero motivo per essere qui e come se fossi capitata per caso in un’epoca a me sconosciuta.
Fuori tempo e luogo. Mi volto indietro sperando infantilmente che Milena e Fabio siano ancora a portata del mio sguardo.
Che c’entro io con questo posto? Cosa cerco…cosa cerco? E, in primo luogo, perché non smetto di cercare?
La vecchina apre il portone in legno scuro dell’ingresso, mi nota prima ancora che io possa farle un cenno.
Inutile voltarmi, non ho scampo.
Perché credo che mi riconosca, inoltre, prima ancora che io abbia il tempo per dirle chi sono.
Avanza nella mia direzione e mi osserva in viso con attenzione, quasi nella speranza di incontrare qualcuno che ha aspettato da sempre.
Le sorrido e sollevo la mano a mo’ di saluto e anche lei mi sorride e prosegue verso di me, mentre curiosità e stupore crescono sul suo viso man mano che si avvicina.
E’ una donna alta ed esile, i lineamenti del viso sottili, il mento appena sporgente, il naso piccolo e leggermente aquilino, gli occhi verdi allungati e grandi, incredibilmente vivi e penetranti per la sua
età. Tra i lunghi e ondulati capelli raccolti a crocchia, solcano il colore grigio della chioma bellissimi, brillanti, indomabili fili di nero corvino.
E’ vestita di lutto da una intera vita. Camicia, gonna pieghettata, calze, scarpe nere, ma capo scoperto, porta il fazzoletto morbidamente avvolto attorno al collo lungo e delicato.
Non so riconoscere somiglianze dovute alla parentela. Solo alcuni particolari. Il disegno delle labbra sottili, la fila avorio dei piccoli denti distanti, il sorriso raro e luminoso: sono quelli di mia madre.
Mentre mi apre il cancello per invitarmi ad entrare, non posso fare altro che mettere fuori dalla borsa il mio quaderno.
Lei mi tiene per le braccia e seguita a scrutare minuziosamente ogni millimetro del mio viso.
Vede le mie lacrime, e così cade il suo ultimo dubbio: “Sei Vittoria, vero? Tu sei la figlia di Marianna?”.
***
Dal libro Le stazioni del vento di Nicoletta Vinciguerra