Il mistero della bolla d’oro di Maurilio Magistroni

Il mistero della bolla d’oro di Maurilio Magistroni

Trenta e lode

Cà Bembo si rispecchiava nell’acqua grigia verdastra del rio San Trovaso, nel primo pomeriggio caldo e afoso di quel terzo sabato di luglio del 1982, vigilia della festa dedicata al Santissimo Redentore. Austera, vecchia, dignitosa, mostrava la sua facciata squadrata segnata dal tempo; così semplicemente, priva di pudore, senza timore; consapevole delle proprie condizioni, sembrava ringraziare di cuore i cinque tiranti a cui erano assicurate altrettante coppie di placche di ferro, che con il loro continuo lavoro di sostegno e tenuta, le alleviavano non poco la fatica di reggersi ancora sufficientemente salda, dopo secoli di superba presenza lungo il canale, veicolo di continua umidità, come nei suoi primi anni, quando offriva dimora e lustro alle diverse nobili famiglie di cui fu proprietà vantata, ostentata, impreziosita e coccolata.
L’accesso dal rio era consentito da un ordine di sette scalini, dei quali i tre più alti in marmo si allargavano quasi ad abbracciare i sottostanti in granito, dando l’impressione di accogliere benevolmente gli ospiti. Una vegetazione minuta, verde e rinsecchita in parte, simile ai capelli bagnati che si appiccicano sulla fronte, significava il livello massimo di marea. L’unica s-ciòna rimasta, quell’anello di ferro poco più largo di una mano che serve da ormeggio, s’adagiava in un angolo dell’ultimo gradino solitaria, arrugginita e dimenticata; nessuno più si serviva di lei da molto tempo. L’ingresso era costituito da un portone a due ante in legno verde scuro con impresse sei impronte di quadri concentrici. Non era molto ampio rispetto allo stabile; arco a sesto pieno, cunei e chiave di volta falsi in pietra bulinata. Sopra a questo, un lungo balcone ornato da una gentile balaustra di colonnine di marmo tornite, conteneva quattro grandi finestre con vetri a piombo, separate da alte e fusiformi colonne, chiuse nella parte superiore da un fisso sempre in vetro; ai fianchi, sotto e sopra, altre più piccole davano luce alle sale interne. In una di queste, l’aula Sarpellon, si trovava il professor Marco Badoer, docente di storia antica e medievale all’università Cà Foscari, ellenista e bizantinista di fama internazionale. La sede ufficiale di tale facoltà era da un paio di mesi inagibile a causa di lavori per ristrutturazione quanto mai necessari e improrogabili. Da ciò il dislocamento provvisorio, e chissà fino a quando, nella sede impropria di Cà Bembo, in Dorsoduro 1075. Vi si svolgeva, in quel sabato, l’ultima sessione di esami prima della pausa estiva tanto sospirata da tutti: docenti, assistenti, studenti, segretari e quanti altri erano occupati nell’incessante vita accademica. Mancavano pochi minuti alle quindici quando, congedato uno spilungone barbuto, il professore si rivolse al suo assistente «Quanti ne mancano ancora?». «Due, solo due: una ragazza e un ragazzo per ultimo» rispose quello aggiungendo un sospiro di sollievo. «Bene, chiami la ragazza e poi se ne vada pure; abbiamo fatto tardi, maledettamente tardi, ma ormai siamo in dirittura finale».
«Sicuro che non ha più bisogno di me? Non è un problema, rimango se desidera».
«No, no, vada a godersi le sue meritate vacanze. Ci rivedremo in autunno e spero che ci siano buone nuove per lei». «Speriamo. Grazie professor Badoer, buone vacanze. Arrivederci».
L’assistente, raccolta la sua borsa da sopra una sedia, uscì dall’aula: «Martina, Martina Marini» disse ad alta voce. Si accorse che era rimasto solo l’ultimo studente. «C’è solo lei? Dov’è la Marini?!».
«Se n’è andata da mezz’ora, non ce la faceva più ad aspettare» rispose quello.
«Va bene, entri pure. Buongiorno».
Il ragazzo si alzò dalla sedia ed entrò nell’aula.
Il professore era a testa china su dei fogli sparsi che tentava di rimettere in ordine e, senza alzare lo sguardo, impegnato com’era, disse: «Si sieda signorina».
Il ragazzo rimase in piedi e mise davanti al professore il suo libretto universitario in silenzio. Quello lo tirò verso di sé con un gesto lento e automatico della mano, tenendo sempre gli occhi abbassati sui fogli; lo aprì e lesse il nome.
«Luca Orton». Alzò lo sguardo verso il giovane e con fare divertito e rilassato disse: «Vedo che lei non è una femminuccia, ma un maschietto! Si sieda».
«A lei non sfugge nulla, vero professore?» rispose mentre si sedeva.
Pronunciò tali parole senza un accento particolare o qualcosa che facesse intendere una volontà di sfottere, ci mancherebbe. Non era proprio il caso prima dell’esame, dell’ultimo esame, ma solo un modo un po’ spiritoso per allentare la tensione provocata dalla lunga attesa. Tuttavia un sorriso beffardo gli spuntò inconsapevolmente sul viso quando il suo sguardo si posò sull’orecchio destro del professore, mancante del lobo e di una piccola parte del padiglione auricolare. Un malaugurato incidente subito da adolescente lo aveva mutilato proprio lì, e fu abbastanza fortunato che il colpo di carabina sparato inavvertitamente da distanza ravvicinata da un coetaneo non colpì per pochi centimetri l’occhio destro con conseguenze che avrebbero potuto essere tragiche.
Il trentaseienne professore andava su tutte le furie quando era guardato in quel modo e per quel motivo; il sorrisino, poi, seppur involontario, lo fece imbestialire. Mantenne comunque un atteggiamento calmo, non facendo trapelare nulla del suo risentimento livoroso; attese che lo studente si ricomponesse per dare inizio all’interrogazione. Niente di tutto questo, l’Orton manteneva quella sua smorfia insolente, pur rendendosi conto che non gli giovava. Anzi, non riusciva ad abbassare gli angoli delle labbra anche compiendo sforzi evidenti, che producevano solo più acredine nel docente e più danno per lui. Infine, passato quel momento particolare, si ricompose naturalmente come se nulla fosse successo. Allo sguardo severo del professore, contrappose solo un’alzata fugace delle sopracciglia come per dire «Beh, che colpa ne ho! Non l’ho fatto apposta, mi dispiace». Quello riprese di nuovo il libretto e diede un’occhiata: corso di laurea in lettere con orientamento antichista, materia a scelta facoltativa, storia medievale. Era l’ultimo esame prima della tesi, tutti gli altri venti sostenuti prima recavano un solo voto: trenta, quasi tutti con lode. (Accidenti! Che razza di elemento mi è capitato! Proprio ora, alla fine di tutto, quando è tardissimo, sono stanco, ho voglia di andarmene, non me ne frega più niente di nessuno, mi arriva questo qui che… e poi mi fa imbestialire; pure con questo suo libretto… ma chi gli ha dato tutti questi trenta, trenta, trenta e lode pure, e ce ne sono di più di questi ultimi. Bene, d sei preso gioco di me, mi hai deriso; ti sei burlato in maniera esagerata caro il mio dottorino in pectore, ma non è ancora finita sai? No, non posso fare questo, non lo posso fare; non lo posso fare e non lo farò». Su ciò non transigeva, aveva una correttezza deontologica molto elevata; ogni sua decisione verso gli studenti era presa con una pienezza di giudizio che rasentava la perfezione; d’altro canto aveva un bagaglio culturale enorme, da tutti riconosciuto e invidiato.
Come un’imbarcazione che fila veloce sul mare con la prua alta, producendo un lungo baffo a poppa, poi d’improvviso si mette in folle il motore e procede solo con l’abbrivio residuo fino ad arrestarsi, cosi si svolse l’approccio fra i due. Ora erano fermi, come in zona di bonaccia; nessuno parlava o ne aveva la voglia. Pure l’aula Sarpellon ci metteva del suo per inguaiarli; a pianta quadrata di circa sei metri per lato, intorno alle pareti una serie di tavoli uniti fra loro, da bassa mensa di rifugio per senza tetto, in formica grigia e alluminio, con alcune sedie. Di fronte al professore sulla parete che volge verso il canale, due finestre con delle veneziane lamellari in pvc grigie impolverate e alquanto sghembe, aumentavano il senso di desolazione. In mezzo a quelle, un vecchio camino coi spallette e architrave in rosa aranciato; sopra, uno specchio antico, con varie macchie scure tipiche della corrosione dovute agli anni.

***
Il mistero della bolla d’oro
di Maurilio Magistroni
2014, 175 p., brossura
Gruppo Albatros Il Filo
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Il commento di NICLA MORLETTI

“Il mistero della bolla d’oro” è un titolo accattivante che attrae subito il lettore. L’incipit del romanzo è eccellente e invita alla lettura più assidua. Cà Bembo si rispecchia nell’acqua verdastra del rio San Trovaso. Siamo alla vigilia della festa dedicata al Santissimo Redentore… Chi non ama i misteri? Chi non è attratto dall’insolito? Marco Badoer, docente di storia dell’Università Cà Foscari di Venezia si trova improvvisamente protagonista di una vicenda incredibile. Il giorno successivo alla sua ultima interrogazione, dopo una serata trascorsa in una tipica osteria della città lagunare, si risveglia catapultato in un’altra epoca. Intimorito e inizialmente spaventato cerca di capire, poi si adatta alla situazione e in tredici mesi vivrà un’esperienza tanto incredibile da coinvolgerlo in fatti e vicende mirabili che gli permetteranno di riscontrare l’esattezza di tutte le notizie storiche di quel periodo e che lo vedrà protagonista di quella più importante. Ma cosa succederà al nostro protagonista quando dovrà tornare miracolosamente nel suo tempo? E poi ancora: riuscirà a tornarci? Riuscirà a riprendere i ritmi della vita precedente? E poi cosa accadrà ancora? Questi sono gli interrogativi che il lettore, man mano che leggerà assiduamente le pagine, si domanderà. La suspense accresce la curiosità, il ritmo del romanzo è serrato, agile, accattivante, coinvolgente. Maurilio Magistroni con capacità narrativa e grande creatività ci propone un libro originale e ben strutturato e con la sua spigliatezza nel narrare incanta il lettore fino alla scoperta del mistero della bolla d’oro.

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