Il freddo era pungente e non avevamo la forza per parlare. Era un tacito consenso.
«Ti siedi qui? Ho il posto» – iniziava lui.
«Ok, grazie».
«Dormito bene?».
«Più o meno. Ieri ho fatto tardi. E tu?».
«Mmm… lo stesso. Speriamo che oggi stian buoni».
«I ragazzi? Eh, già! Ma fa freddino oggi, vero? Pare più di ieri». – gli rispondevo.
«Sì, è verissimo. Ma la nebbia… è niente ancora. Questa non è nebbia».
Nel frattempo mi ero sfilata via il cappotto, la sciarpa, il cappello e guanti. Provavo a scaldarmi le mani mettendole ad imbuto sulla bocca. «Sono fredde?».
«Son sempre un ghiacciolo, Enrico. Ma, dimmi… Come è la nebbia?».
Prima di rispondere mi stringeva una mano: «Cavolo! Hai ragione. Te le riscaldo un po’, se vuoi» – e le teneva tra le sue per un tratto, finché io, imbarazzata, senza sapere più cosa dire, me le ricacciavo tra una gamba e l’altra.
Allora lui abbassava lo sguardo per fissare le mie mani che erano sfuggite vie così, in silenzio. Poi guardava qualche secondo fuori dal finestrino, tirava un sospiro e rivolgendosi ai miei occhi con un mezzo sorriso riprendeva: «La nebbia? Oh, la nebbia deve ancora venire!».
Restavamo in silenzio. Lo vedevo socchiudere gli occhi. Poco dopo anche io, iniziavo a raccontarmi nuovi sogni. Ogni tanto, quando il pullman sobbalzava, riaprivo le palpebre e mi ritrovavo il capo di Enrico ad un respiro dal mio. Non mi muovevo per non svegliarlo e così durava fino a Taglio di Po.
Lì salivano i ragazzi con i loro cicalecci sommessi. Aprivamo gli occhi poco prima la fermata dell’autobus, sul ponte che sovrastava il Po.
«Guarda!» – mi diceva Enrico indicandomi il sole che sorgeva sul fiume – «Questo è il punto più bello, forza! Apri gli occhi».
Era davvero una meraviglia: il sole d’un rosso fuoco, quando non c’era la nebbia, sorgeva dietro un campanile che svettava tra le case ancora addormentate. Il Po si tingeva di rosa e accoglieva la luce del giorno. Pareva un acquerello napoletano del Settecento. Restavamo a guardare in bilico tra sogni e pensieri. Poi salivano i ragazzi. Anche loro dormivano: il capo sullo schienale del sedile anteriore: le notti passate in discoteca. Parecchi però restavano in piedi e l’aria si faceva densa, umida. Dai vetri scivolavano giù, zigzagando, una miriade di goccioline. Chiudevamo gli occhi anche noi per un altro tratto. Mezz’ora dopo eravamo a scuola. Solo allora dicevamo addio ai fumi dei sogni, scrollandoci di dosso la nottata e il freddo del risveglio. Scendevamo alla spicciolata. I ragazzi gridavano per la via, mentre noi cominciavamo i nostri racconti. Parlavamo di tutto, ma, più d’ogni altra cosa, delle nostre vite che andavano per conto loro.(CONTINUA)