Ero seduta su di una panchina…

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Ero seduta su di una panchina con sagoma arrotondata e sinuosa, fatta di cemento misto a pietrisco. Una di quelle panchine apparentemente massiccie, con schienale ondulato e scomodo, nella sua durezza, che si potevano vedere nei giardini pubblici delle cittadine italiane negli anni ’70.

Queste davano il senso dell’inutile solidità. Infatti ben presto, col tempo, cadevano loro gli angoli o grossi pezzi , mettendo spesso a nudo il ferro dell’ ‘armatura’ che stava all’interno. Il che svelava la loro natura fragile, a dispetto dell’aspetto falsamente resistente e robusto. A queste, chiamiamole panchine, mancava il vezzo tipico delle semplici panchine in doghe di legno su agile struttura portante in ferro, tipiche nella loro fattura, di un’epoca che sembrava e sembra oramai tramontata.

Ero conscia di aver salito inutilmente una scala fatta di scalini d’aria: ero rimasta esattamente al punto in cui mi ero trovata un anno prima, con l’aggravante che adesso non mi era rimasto neanche un briciolo d’entusiasmo. La mia mente vagava sulle e fra le macerie delle mie illusioni.

Non era cambiato concretamente nulla nel corso dell’anno che era appena trascorso. Il mio bagaglio ed il consuntivo dell’ultimo anno erano un’insieme di sogni e di entusiasmi legati ad illusioni. Queste avevo voluto a tutti i costi convincermi fossero rispondenti ad una realtà che avevo creduto di poter costruire e realizzare con la mia volontà. La giusta constatazione, che prepotentemente mi riportava inesorabilmente al vero panorama dei fatti, invece mi convinceva del contrario. Tutti entusiasmi, tutti ottimismi, costruiti a tavolino, che avevo voluto credere si concretizzassero in un risultato tangibile e giusto, considerato il mio impegno generoso e travolgente. Tutta volontà presuntuosa, che mi aveva convinta che io avessi sul serio cambiato una situazione infelice. Quest’ultima, con cinica gradualità, come un sipario che si apre lentamente , mi ripresentava, anche se i miei occhi e la mia mente non volevano convincersene, lo scenario deludente di ciò che non ero riuscita a cambiare nel corso dell’ultimo anno. Anzi avevo un sinistro sentore di regressione.

Era come se avessi avuto , nel corso dell’anno, la sensazione del compiacimento , ma solo la sensazione, di aver percorso tanto cammino. Di aver raggiunto tante mete importanti per la mia famiglia e per i miei figli , e quindi anche per me.

Forse i miei due figli e mio marito avevano ottenuto molto di più di quello che avevano un anno prima. Ma io sperimentavo, con lenta ed amara convinzione, che non possedevo, nella mia mente, nel mio animo, nei miei sentimenti, nei miei ricordi recenti, nella mia realtà di tutti i giorni, nulla di ciò che credevo avessi ricostruito e/o costruito “ex novo”. Ero rimasta al punto di partenza.

Anche se richiedevo inconsciamente, con struggente ed ostinatamente inutile rivendicazione, al Destino, una riprova del contrario. La realtà invece era lì, muto ed impietoso testimone del mio fallimento. Avevo soltanto un anno di più. E per la mia malattia contava molto, ed in senso nettamente negativo, nella fase in cui era. Nel dolore dell’amarezza e dello sconforto, mi sentivo in ginocchio. Di fronte ad un paesaggio mentale e fisico che rifiutavo cocciutamente, ma di cui dovevo necessariamente prendere atto per non imboccare la strada, pur invitante, convincente, comoda e suadente, della follìa.

Davanti a me, seduta sulla panchina scomoda e assolutamente non accogliente, non passava nessuno. La ghiaia mista a terriccio mi stava davanti e mi separava dal largo marciapiedi anonimo del lungomare. Un lungomare insignificante, come spesso danno l’impressione di essere ‘fuori stagione’ le ‘passeggiate’ che costeggiano il mare. Col mare grigio che avevo alle spalle.

Sul marciapiedi neanche un cane randagio, nè un vecchio pensionato che trascinasse i piedi e mi facesse sentire almeno la sua presenza. Pur se deprimente, ma pur sempre presenza.

Ero completamente sola nell’agghiacciante situazione di chi dubita anche della sua esistenza. Il cielo era bigio, e non faceva neanche freddo.

Un freddo che almeno mi costringesse a destarmi dal pesante, tremendo ed opprimente torpore immobile, senza speranza e senza tempo, che mi possedeva tutta, nella sua morsa stringente e senza significato.

Se fosse passato qualcuno davanti a me, in quel pomeriggio plumbeo e senza carattere, avrei provato ad immaginare i suoi pensieri , per provare a farli miei, per riempire i vuoti sgomenti della mia mente, del mio animo e del mio cuore.

Mi sentivo come un pugile suonato. Incapace di reagire; anche solo di pensare all’insulto esistenziale da cui ero stata investita senza che me ne accorgessi. Perchè non avevo creduto che Luca fosse così importante per me, prigioniera com’ero stata e com’ero ancora, del mio egoismo da malata. Ma oramai era tardi. E poi non ne ero ancora del tutto nemmeno convinta, neanche adesso che l’avevo realmente perduto, che Luca facesse per me. Un insulto che si era consumato proprio mentre, sull’onda del mio ottimismo generoso, ero stata certa che avrei ricucito ferite banali e lacerazioni occasionali, che con tutta probabilità, avevano cause antiche, motivi che partivano da lontano.

Le ferite che sorprendono l’animo ed il cuore sono sempre soltanto apparentemente improvvise ed inaspettate. Infatti ne abbiamo sempre il sentore, spesso per anni ed anni prima che avvengano e che si manifestino ineluttabilmente e senza dubbi. Di solito ne avvertiamo il sopraggiungere, come di un cerchio che si stringe, nei sogni che facciamo. I sogni che premoniscono tali ineluttabili catastrofi esistenziali sono frequenti e stupidi. Spesso, anzi sempre, senza un senso. Più che banali, sono brutali nella loro insignificabilità. Ma hanno tutti un denominatore comune: ingenerano in chi li sogna un’ansia angosciante d’irrimediabile sconfitta, di fatale accadimento, di prevedibile anche se inaccettabile incombenza. Incombenza sempre accompagnata da un inconscio convincimento d’impotenza nei confronti di ciò che ti colpirà.

I protagonisti del “tradimento” che si consumerà, prima o dopo, compaiono facilmente riconoscibili in tali sogni. Sono persone che ci circondano, molto frequentemente vicine a noi. Noi ‘sentiamo’ in anticipo che tali persone ci ‘tradiranno’.

Lo ‘sentiamo’ nel significato spagnolo-marocchino del termine ‘sentire’, cioè: ‘soffrire’. E’ il soffrire della ‘ vittima’, la quale sa già da tempo chi è il suo ‘carnefice’, che, strano a dirsi, perchè non siamo assolutamente convinti con l’illusione della ragione, sia capace di farlo, le farà del male, e ‘sente’ quale sarà il male che ‘il carnefice’ le farà, quel male che sta scritto nel Destino che sarà consumato.

Di fronte a tale irrimediabili accadimenti sorge con spontanea reazione la voglia di cambiare sè stessi, visto e considerato che non si può cambiare la realtà che ti vedrà è obbligatoriamente soccombere. Voglia di diventare altri da sè, per sfuggire al Destino che è legato alla nostra identità. Scappare dal proprio sè, per rifugiarsi in un altro sè. E’ forse la libertà interiore che nessuno ci potrà mai togliere?!

Nessuno ci potra’ mai privare dell’anelito al ‘diverso’. Il ‘diverso’ lo dovremo cercare e trovare necessariamente in noi stessi e non fuori di noi. L’infinita libertà è dentro di noi, non fuori di noi.

‘L’uomo ha nostalgia del bene’ e ciò è tangibile anche e soprattutto nei sogni.

Se l’oggetto di un nostro sogno è una persona che per il passato, anche molto remoto, ci ha fatto del bene, ma poi si è allontanata da noi, anche passando attraverso un brutale abbandono di cui ci ha fatto oggetto, spesso il sogno si tinge di rosa nostalgico. E recupereremo, nel sogno, quello che quella persona non ci ha più dato nella realtà perchè ci ha abbandonato. In casi come questo il sogno funge da ‘correttore’ della realtà, o meglio, completa ciò che nella realtà è rimasto incompleto o del tutto irrealizzato.

Tutto questo ragionare porta necessariamente al concetto di necessità di protezione, che poi è essenzialmente necessità d’Amore.

L’Amore è come un flusso inesauribile che non può essere soppresso e che scorre fra le persone. Se non trova un canale , esiterà certamente in un altro sbocco: insomma deve trovare obbligatoriamente una canalizzazione. Altrimenti, se tale flusso si blocca, le conseguenze sono sicuramente tremende, sia in termini di esplosività improvvisa, sia in termini di stasi che crea complicanze inimmaginabili per la loro potenzialità. Quest’ultima si esprime anche a distanza di tempo.

E’ per questo che le persone sole, sia quelle che avevano una famiglia, per così dire ‘unita’ e che poi l’hanno persa, sia quelle che non l’hanno mai avuta una famiglia, sia quelle che l’hanno soltanto apparentemente una famiglia, manifestano fragilità. La quale ultima risulta sempre incredibile, e spesso inspiegabile, o spiegabile con banale superficialità, per chi non l’ha mai provata. E chi non ha mai provato questo tipo di fragilità ha avuto questo Destino perchè è passato direttamente dalla ‘incubatrice’ materna e/o paterna al ‘porto’ della persona che è diventata il/la compagno/a della sua vita.

La fragilità delle persone sole è direttamente proporzionale alla loro incapacità di farsi , per così dire, “conduttori” di questo flusso continuo, necessario, d’Amore. La mancanza di transito d’Amore le rende fragili. Da qui l’avarizia e la solo apparente meschinità’ delle persone sole. Esse avvertono la loro mancanza d’Amore come povertà, una povertà incolmabile. Molto spesso tali persone considerano questa povertà come materiale, mentre è soltanto una povertà d’Amore. Ma c’è sempre Dio che pensa a dar loro, ed a riprendersi da loro, quella parte d’Amore; del cui flusso

loro hanno necessariamente bisogno. E’ per questo che non succede per loro l’irreparabile.

E’ Dio che provvede ad inserire queste persone sole nel circuito dell’Amore, a loro insaputa o con la loro complicità, gioiosa o meno.

Ricordate, è sempre un flusso, quello dell’Amore. L’Amore è dinamico : esso non può mai fermarsi! Non è qualcosa di statico, per definizione.

Le persone ‘sole’ si arrendono sempre alla Misericordia di Dio, anche se molto spesso non lo ammettono o non se ne accorgono neanche. Altrimenti non reggono e sono costrette al suicidio od ad altra forma di auto- annientamento. Attenzione: non lo scelgono mai consciamente il suicidio o l’autoannientamento, sono costrette ad esso, perchè per loro non vi può essere altra via d’uscita se non si arrendono. Il vero significato dell’Amore è sempre la ‘resa’.

Un’altra caratteristica dell’Amore è la leggerezza: il paragone più calzante col flusso d’Amore è il movimento che fa nell’aria una piccola piuma. Il fatto che il suo movimento sia sensibilissimo ad

ogni più leggero soffio fa sì che essa appaia in balia di ogni sollecitazione dell’aria. Quest’ultima data dal minimo spostamento di ogni oggetto le passi vicino; anche del più limitato movimento d’aria. Invece sono proprio lì la sua forza ed il suo significato. L’Amore è impalpabile. Eppure sempre così presente e necessario. Senza di Esso nulla esisterebbe e nulla si muoverebbe. Orbene

una piuma di piccole dimensioni rappresenta perfettamente le caratteristiche dinamiche dell’Amore. Così apparentemente fragile, eppure così resistente da essere insopprimibile. Così apparentemente abbandonato ad ogni insulto, eppure così dolcemente sicuro del suo cammino e delle direzioni che muta di continuo.

Questi cambi di direzione e di senso non sono assolutamente casuali, anche se appaiono esserlo. Ogni movimento di una piuma che cade dall’alto, o che si sposta in piani orizzontali, che sfiora il terreno, per poi riprendere quota, ha un preciso significato ed un preciso obiettivo. Ed il bello è che questi significati e questi obiettivi cambiano in continuazione a seconda delle esigenze. Quali esigenze? Sono le esigenze dell’Amore stesso.

L’Amore non è legato ad un filo come un aquilone. Esso è libero e la sua libertà è prettamente legata alla sua leggerezza.

E’ con questi pensieri in mente che mia alzai dalla panchina. Un sole malato premeva dietro la coltre di nuvole spessa e compatta che sbarrava il cielo. Ma non riusciva a farsi vedere. L’umidità era forte nell’aria ed aveva un qualcosa di malsano. Decisi che era molto meglio tornare a casa, ma quando mi alzai avvertii che non avevo quasi per nulla la sensibilità di tutto l’arto inferiore destro. La sclerosi multipla fa spesso questi scherzi: perchè se si limita a questo sono solo scherzi.

Rispetto al peggio, questi sono solo scherzi.

Arrancai alla meglio fino alla mia automobile e mi misi alla guida. Accesi il motore, mi avviai verso casa e vi arrivai dopo circa mezz’ora. Dovetti sedermi, ma cercai di restare davanti al computer per trovare spunti di distrazione. Erano soltanto le dieci del mattino ed era Domenica. Una Domenica senza significati come tante altre.

Sembra scontato, ma negli ultimi due anni, cioe’ da quando la malattia aveva intrapreso uno stadio piu’ avanzato, in giornate ‘vuote’ come quella precipitavo nella domanda che oramai si ripeteva monotona, anche nella sua ansia, alla quale peraltro ero oramai abituata. ‘Per quanto ne avrei avuto prima di finire sulla sedia a rotelle?’. E la risposta che mi davo era sempre la stessa: ‘Non lo so, speriamo al piu’ tardi possibile!’.

Era come una specie di gioco monotono delle parti, parti di me stessa. Io che chiedevo a me stessa formulando sempre la stessa domanda ed io che rispondevo a me stessa sempre con la stessa risposta. Eppure il cervello mi funzionava ancora, ne avevo diverse riprove: le ricercavo e le documentavo ogni giorno con metodo e meticolosità’.

Ma la ripetitività della domanda e della risposta aveva qualcosa che non andava proprio. Avrei dovuto evitare di caderci dentro quasi ogni giorno, in questo monotono e breve soliloquio: mi dovevo decidere ad uno sforzo di volontà che me lo facesse evitare.

Aperto il computer trovai un contatto di Luca, che mi aveva scritto un’ora prima che tornassi a casa: ‘Ciao Raffaella! Oggi come ti senti?’. Gli risposi subito, anche se non era in linea al momento: ‘Gamba e coscia destra: assenti!’. Sapevo che l’avrei messo in apprensione, come al solito. Ma non ne potevo fare a meno: di chiedere aiuto, di lamentarmi, di dire la mia paura a qualcuno, anzi proprio a lui che si era dichiarato piu’ volte il mio Angelo custode. Una richiesta d’aiuto che traspariva anche solo dal dare notizia di un qualcosa che non andava bene. Ogni qual volta v’era una novità negativa. Ed oramai quelle novità allarmanti erano sempre più frequenti.

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ALTRO BRANO tratto da “ASPETTI DELL’AMORE”, di Sabatino Di Filippo

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Sabatino Di Filippo

Sabatino Di Filippo, nato a Castellammare di Stabia (NA) il 21.2.1951, residente a Catanzaro, medico-infettivologo ospedaliero; romano d’adozione.
1987 : Segnalazione d’onore nel PREMIO NAZIONALE DEL LIBRO, DI POESIA E SAGGISTICA con un libro sul TERZO MONDO ‘LA FAME DEGLI ALTRI’.
2008: VINCITORE 3° PREMIO NARRATIVA ‘CITTA’ DI FUCECCHIO, CAPIT, con il romanzo inedito: ‘ASPETTI DELL’AMORE’.
2009: VINCITORE del PRIMO ‘PREMIO VIAREGGIO, SEZIONE CARNEVALE, 2009’, CAPIT, col Racconto sul Carnevale: ‘PUO’ UN’IDENTITA’ SCONOSCIUTA APPARTENERCI?

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