Sassofen di Paolo Albertini

Una pedalata tira l’altra. Mio padre mi ripeteva a volte questa frase. Tornava stanco la sera e gocciole di sudore corpose e luccicanti gli rigavano la maschera del volto. Sulla fronte era impresso il segno del tessuto ruvido di una grigia berretta. Di giorno al lavoro nella cava, a tagliare e lavorare una pietra che spezza le mani, dal colore d’alba livida di qualche mattino. Al ritorno cinque o sei chilometri da percorrere sul sellino sfatto della bicicletta.
La bici di mattina è nel ripostiglio, morbida e rassicurante nelle forme verde pastello. Sembra una strana e vivente creatura metallica. Un filo più scuro di sinopia conferisce un’elegante snellezza agli elementi tubolari. Nei punti di raccordo del telaio brillano modanature cromate. Dietro il sellino pende una borsetta marrone di duro cuoio dalle cuciture in rilievo, con dentro i materiali per riparare una foratura, impiccio fastidioso e sempre in agguato nelle strade sterrate, gonfie di polvere e breccia bianca.
Colorite narrazioni di storia familiare ne accrescono il fascino. Durante la guerra, opportunamente nascosta alla svelta, è scampata allo sconquasso delle truppe tedesche in ritirata. Ha intrapreso viaggi lunghi e pesanti per trasportare sale, grano e poca legna da ardere. Le restano come appesi addosso ricordi di feste e dissapori, sempre da protagonista silenziosa.
Anche questa mattina appare quietamente in attesa.
Un portapacchi nero fissato con robuste viti ne appesantisce il disegno e non sembra intonarsi con tutto il resto. Si svela facilmente come il tratto della necessità. Sollevo con cura l’astuccio anch’esso nero e lo sistemo alla meglio, fissandolo con un cordino elastico al portapacchi.
Contiene un sassofono tenore, nel suo letto di raso rosso.
L’interno dell’astuccio è rivestito di miracoloso e inaspettato raso rosso, ormai sbiadito nei punti dove lo strumento striscia, per forza d’attrito, con regolare frequenza. Aprendo l’astuccio rivivono ogni volta nuove emozioni. Mi sembra di violare l’interno del camerino di un maturo attore di teatro: le sue debolezze, le sue manie. Mancano creme e oggetti per il trucco e vi giace un grasso sassofono sistemato in uno spazio riservato allo strumento intero privo di bocchino. Un piccolo incavo contiene una scatola di ance, lingue agili di canna e anime vibranti del suono degli strumenti ad ancia, dal sapore lieve e dolciastro quando le inumidisci fra le labbra ogni volta che riprendi in mano lo strumento per suonare. Insieme alla scatola giallo arancio si trova una minuscola bottiglia di olio di mandorle per ungere e mantenere morbidi i tamponi che il tempo e l’usura tendono a disseccare.
I tamponi sono cuscinetti rivestiti di pelle o di elastico materiale sintetico che, applicati alle chiavi, permettono la chiusura immediata e perfetta di molteplici fori. Tali fori, aperti o chiusi, modificano la struttura della colonna d’aria contenuta nel ventre ritorto dello strumento che, attraverso la vibrazione dell’ancia, produce il suono. In un altro incavo dell’astuccio riposa il bocchino con un cappuccio metallico a proteggere l’ancia già inserita.
I sassofoni sono di metallo cromato oro-argento. Il mio è argentato. Lire quindicimila. Prezzo da rigattiere, anche se chi me l’ha venduto non lo era. Si trattava, invece, di un vecchio suonatore di banda, dalle mani incerte e tremolanti, quando con un timido sorriso mi ha ceduto la sua reliquia. “Trattalo bene… mi ha fatto compagnia per tanti anni”.
Marca o sottomarca di qualità indefinibile. Il marchio di fabbrica, inscritto in una corona di arbusti intrecciati, è ormai illeggibile.
Rottame da distruggere per chi guarda senza riserve, alle nuove tecnologie che si impongono e avanzano, seminando la strada di vecchie e patetiche forme, ormai morte nei colorì stinti e screpolati che celano più semplici e primitivi materiali. Qualità del suono scadente, specie nel registro basso che a volte si rifiuta ad ogni invocazione e affannosa
preghiera e diventa per me chimera irraggiungibile, mistero insondabile e araba fenice della mia musica. Per fortuna sono ancora accettabili i registri medio e alto. Meglio non considerare che quando meno me lo aspetto mi lascia a piedi, nel senso che non produce suono. Le molle, che non mi sono mai occupato di sostituire, sono logore e le chiavi ad ogni ciclica scadenza corrono il rischio di bloccarsi. Per ogni evenienza ho sempre con me una scorta di elastici di varie misure, come rimedio estemporaneo.
Quante volte mi sono sentito preso in giro. Un dilettante da balera… un disperato della musica… un tragicomico fischione da banda.
Eppure questo non ha fatto altro che rafforzare il legame ili affetto col mio strumento; un vecchio amico, alla fine della carriera, che esibisce ancora qualche nastro e spento lustrino mentre affianca il giovane che incede nel magma aggrovigliato dell’esistenza. A volte lo cerco e sfiorandolo con una carezza vi trovo rifugio e sostegno alle ansie inevitabili, bric-a-brac, cianfrusaglie della vita.
Ripenso allora a quel conoscente, mio coetaneo, anche lui suonatore di sax e un po’ più fissato di me, che a scuola durante le lezioni, incurante di chi gli stava intorno, scandendo il tempo con il piede, mugolava sequenze di note a ripetizione, vavavavavava, effettuava assolo di percussioni tipum tipum tipumcha e break virtuosistici solsolfafami-lasiredo…
Faceva l’imitazione di uno strampalato uomo-orchestra, lasciando che un soffio di follia musicistica invadesse sempre di più la sua mente. Aveva gettato l’anima nel suo sassofono, nell’inferno fiammeggiante dei suoni, mosso dal- l’inconsapevole speranza di stringere un patto con il diavolo e di ripescare un giorno quell’anima rivestita di chissà quali meraviglie sonore.
Sono dunque pronto ad andare. Inforco la bicicletta con difficoltà, per l’ingombro nero del bagaglio e mi avvio pedalando. Devo percorrere una salita piuttosto ripida. Una pedalata tira l’altra. Una fresca e mattutina energia muove il mulinello sincronico dei pedali e delle gambe. I pedali hanno qualcosa da ridire e mandano ogni tanto uno scrocchio rumoroso. Superata la salita il percorso si addolcisce. Sul bordo della strada tigli e tigli che si susseguono, a regalare il piacere dell’ombra. Il loro profumo mi accompagna e quasi inebria i sensi. Non è forse vero che le api, nell’epoca della fioritura, ne subiscono l’effetto narcotizzante tanto da stramazzare a terra ubriache?
Continuando a pedalare mi scopro a sorridere dicendomi “Non sono certo un’ape!” scuotendo con moto inavvertito il capo.
Sono giunto alla fine del viale. Niente più abbandono all’ombra dolce degli odori. Ancora pedalate. Un chilometro sotto il sole che distende la sua calda mano sulla pelle delle braccia e del collo. Nero asfalto che sfuma nel bianco polveroso del ciglio della strada. Fastidio agli occhi che quasi lacrimano per la luce accecante che li investe.
La meta del viaggio è ormai raggiunta ed ora accosto al bordo sterrato della strada. Conduco la bicicletta a piedi sotto l’incerta forma di alcuni cespugli e, dopo uno sguardo alla scura e imponente parete boscosa della montagna che si erge e incombe sulla valle, mi avvio, con l’astuccio ciondolante in mano e una sacca con le provviste per il giorno, lungo un breve sentiero in discesa che conduce al fiume, nascosto e incassato fra le rocce lisce e consumate dallo scorrere incessante dell’acqua.
Pochi passi e devo sostare un momento per districarmi da un ramo che mi sbatte in faccia. Nessun rumore proviene dalla strada sovrastante. Carpini e ornelli stanno tutt’intorno. Un raggio di sole filtra tra i rami e depone una lama di luce sull’acqua di un canale qualche metro più in basso. L’acqua sottratta al fiume, a monte, percorre senza rumore quella via e giunge ad una piccola centrale elettrica in disuso. Nessuno abita più fra le sue mura silenziose ed all’interno esplode soltanto il fragore dell’acqua che non ha turbine da far girare e ritorna rovinosamente al fiume, attraverso un’apertura alta e tenace sulla parete muro-roccia. Il canale sarà largo all’incirca un metro e mezzo, un pezzo di robusta e rumorosa lamiera arrugginita congiunge le sue sponde e la da passerella.
Ho un piede sul ferro traballante e la percezione di un rumore circolare. Alla mia sinistra lo scroscio di una cascata; la sommità del suo muro misura in altezza cinque o sei metri. Una parte della sua acqua, deviata, scivola con leggero sfrego sotto di me. Alla mia destra e di fronte, l’acqua del fiume, modulando sequenze di suoni, sbatte sulle rocce, le avvolge, le supera e le consuma levigandole. Per pochi secondi è come se sul mio corpo fattosi minuscolo agisse un enorme organo dell’udito e si manifestasse la sensazione di essere un turacciolo di sughero… un fatuo osso di seppia sospeso sulla schiuma immobile di un gorgo.
Un salto che inizia leggero e finisce goffo. Il bagaglio che porto pesa e mi sbilancia, mentre atterro sul bordo incerto del muro che trattiene l’acqua del canale. Due gradini sconnessi a scendere e pochi passi per raggiungere la piattaforma artificiale ottenuta, qualche anno prima, scavando e spianando sotto un chiaro sole di inizio estate lo scoglio alto sull’acqua che scorre fra le pareti striate del calcare massiccio.
Deposito in un anfratto, quasi nascosto da un agile alberello, la sacca con il cibo e la custodia con il sassofono, mi tolgo le scarpe, scivolo sulla nuda parete e mi siedo su di un piatto spunzone di pietra per immergere i piedi sudaticci nell’acqua. Bianche bollicine mi solleticano la pelle.

***

Leggiamo e commentiamo insieme questo brano tratto dal libro Sassofen di Paolo Albertini, recensito da Nicla Morletti nel Portale Manuale di Mari.

1 commento

  1. Un racconto imtregnato di ricordi che scivolano come l’acqua di un fiume e avvolgono con inconsueta successione sintonie e movenze. Quasi l’autore fosse un abile medico, descrive minuziosamente natura e particolari di quel sassofono, che nelle sue mani ritorna alla vita.
    Complimenti sinceri!

    Marinella (nonnamery)

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