Lasciò la rotta ed il timone al pilota automatico, si accomodò nel pozzetto, chiamando Bizet, alquanto intimorito ma nel frattempo incuriosito dallo sbattere delle cime libere lungo l’albero; inciso sul tambuccio rilesse quasi a memoria:
– LAMPARE –
Tra le ombre che si specchiano
in un mare di velluto blu,
laggiù,
al limite del mio sguardo,
una lampara procede lenta,
tracciando la rotta
in una scia di spuma bianca.
Il pescatore di vedetta
scruta lontano
tra stelle danzanti e nastri d’argento,
la virata in picchiata di un gabbiano.
Solo, in un mondo
senza pensieri e senza parole,
nella carezza dolce del vento
lieve un sussurro svela l’incanto.
Ho visto più di quanto pensavo
di poter vedere…
Ho amato più di quanto credevo
di poter amare…
Scriveva ovunque. Mark sorrise. Quell’indimenticabile viaggio in Sicilia, al largo di Acitrezza, con una bottiglia di spumante da sorseggiare al tramonto, dopo una mitica
spaghettata, premio del lungo viaggio. Lei accucciata, in cerca del calore del suo petto, tra le sue braccia. Il suo sguardo brillava carico d’emozione, indicava eccitata le luci in lontananza gridando ogni tanto: “Guarda! Una lampara…”
A quella vista il suo entusiasmo esplodeva, incontenibile, quasi niente al mondo ci fosse di più affascinante, di una piccola barca di legno, che procedeva lenta, alla luce di una lampada mal fissata a prua. Eppure, di quella scenografia d’incanto, lei coglieva ogni particolare, anche il più insignificante, caricandola di valori assoluti, rivestendola d’infinite espressioni e doti magiche. Ed era semplicemente per questo, che un qualsiasi pescatore, il suo berretto da marinaio, la sua pipa, là, su una barca in mezzo al mare, diventava all’improvviso portatore d’antica saggezza, capace di vedere, oltre ogni capacità umana.
(…)
Si era lasciato trasportare da reminiscenze piacevoli, ricche di sensazioni, e mentre indossava la muta, continuava a sorridere scuotendo la testa. Era pronto. Una grattatina al mento del micio, e si tuffò.
Il mondo cambia volto sott’acqua, si attenuano i sensi, e ci si lascia avvolgere dall’ignoto, ma ribolle una vita silenziosa. Si percorre una città sotterranea, popolata da diverse tribù coloratissime, ognuna delle quali si esibisce in una sorta di danza distinguibile dalle diverse livree.
Mark procedeva cautamente tra i coralli, le selve di alghe, zigzagando tra archi e ponti di madrepore e curiosi abitanti del fondo, quando vide venirgli incontro uno squalo. L’animale gli si accostò e Mark rimase immobile. Il ventre bianco lo aveva sfiorato più volte, per poi virare e tornare su di lui; l’occhio nero impenetrabile sembrava fissarlo, mentre avvicinava le mascelle socchiuse, come sorridenti,
mostrando più file di denti appuntiti. Passò e ripassò al suo fianco finché con un breve colpo di coda, quasi ad insistere sulla sua poco gradita presenza, si allontanò. Mark non si mosse finché non lo vide inabissarsi verso acque più profonde.
Cercò di calmarsi, concentrandosi sulla respirazione, tranquillizzato, proseguì verso la catena di montagne. Iniziò a farsi largo tra cespugli di spine, ventagli, rami e arbusti. Doveva solo aprirsi un
varco per raggiungere la tridacna gigas. Aveva portato con sé l’occorrente, e faticando non poco, riuscì nel suo intento. Finalmente poteva vederla chiaramente, nell’armonia delle sue forme, colori e
complicate strutture, larga quasi un metro, dal peso all’incirca di duecento chilogrammi, immensa. Accarezzò il guscio, rapito dalle straordinarie dimensioni di quella creatura. Scattò diverse fotografie, e rendendosi conto che l’acqua diventava più scura, col calare della sera, velocemente risalì; il più del lavoro era fatto.
(…)
Mark s’illuminò a quelle parole. Era in questa favola che gli aveva tenuto nascosta, la chiave di tutto. Non era una semplice storia per bambini, stava infatti, raccontando le sue paure, le verità più nascoste. Riprese la lettura:
Tra i giochi d’ombra, cercava ancora il suo sorriso, il suo calore, la tenerezza del suo abbraccio quelle tante parole, ma non era altro che il fruscio del vento tra la chioma degli alberi, il guizzo di qualche pesciolino, il verso insistente di una civetta dispettosa, nient’altro che il vuoto intorno, il re non c’era.
Dai suoi occhi neri, a frotte, piovvero a cascata, senza freni, centinaia e centinaia di lacrime, che precipitarono pure e cristalline nell’acqua del fiume… e d’incanto, l’acqua melmosa e scura gorgogliò, da ogni lacrima guizzarono mille gocce limpide e fresche, zampillanti come le stelle, che in luccicanti scie travolsero il buio, unendosi in un unico torrente che rapido si aprì un varco verso il mare aperto.
Una farfalla bianca le volteggiò intorno, sfiorandole il viso in una carezza,invitandola a seguirla.
La piccola gitana, raccolse il suo fagotto di stracci, tolse i sandali, poggiando sull’erba umida i piedi nudi, per percepirne la morbidezza. Si voltò verso il vecchio peschereccio abbandonato e s’incamminò per il sentiero nascosto dall’erba incolta che anni prima l’aveva condotta là.
NESSUNO LA VIDE PIÙ!
Era tornata, per sempre, nella sua foresta incantata, dove era regina indiscussa ed adorata di tutte le costellazioni, gli oceani, le stagioni, i colori dell’arcobaleno. Era tornata a correre, libera e ribelle, come sempre era stata.
Era tutto scritto chiaramente, dal principio all’addio.
Gli gnomi raccontano, ma è leggenda popolare, che accanto a lei ci fosse Britt, il piccolo cucciolo di husky abbandonato dal re. Britt le scodinzola accanto incuriosito da quel mondo magico, mentre lei, correndo verso il vento, recita sempre la medesima filastrocca:
“QUESTA NON È
UNA FAVOLA DI FANTASIA,
MA LA STORIA VERA,
DI UN UOMO CHE,
IO PICCOLA GITANA,
CREDEVO FOSSE UN RE…”
Mark spense il computer.
Stanchissimo, si distese in cabina, chiuse gli occhi, Bizet, accanto, faceva le fusa. L’aria tiepida lo scaldava, la piccola luce notturna a basso consumo lo rassicurava.
Si addormentò subito.
***
Dal libro Il pescatore di Tridacne di Ornella Gatti
Dal Pescatore di Tridacne:
Estratto 1
Lasciò la rotta ed il timone al pilota automatico, si accomodò nel pozzetto, chiamando Bizet, alquanto intimorito ma nel frattempo incuriosito dallo sbattere delle cime libere lungo l’albero; inciso sul tambuccio rilesse quasi a memoria:
– LAMPARE –
Tra le ombre che si specchiano
in un mare di velluto blu,
laggiù,
al limite del mio sguardo,
una lampara procede lenta,
tracciando la rotta
in una scia di spuma bianca.
Il pescatore di vedetta
scruta lontano
tra stelle danzanti e nastri d’argento,
la virata in picchiata di un gabbiano.
Solo, in un mondo
senza pensieri e senza parole,
nella carezza dolce del vento
lieve un sussurro svela l’incanto.
Ho visto più di quanto pensavo
di poter vedere…
Ho amato più di quanto credevo
di poter amare…
Scriveva ovunque. Mark sorrise. Quell’indimenticabile viaggio in Sicilia, al largo di Acitrezza, con una bottiglia di spumante da sorseggiare al tramonto, dopo una mitica
spaghettata, premio del lungo viaggio. Lei accucciata, in cerca del calore del suo petto, tra le sue braccia. Il suo sguardo brillava carico d’emozione, indicava eccitata le luci in lontananza gridando ogni tanto: “Guarda! Una lampara…”
A quella vista il suo entusiasmo esplodeva, incontenibile, quasi niente al mondo ci fosse di più affascinante, di una piccola barca di legno, che procedeva lenta, alla luce di una lampada mal fissata a prua. Eppure, di quella scenografia d’incanto, lei coglieva ogni particolare, anche il più insignificante, caricandola di valori assoluti, rivestendola d’infinite espressioni e doti magiche. Ed era semplicemente per questo, che un qualsiasi pescatore, il suo berretto da marinaio, la sua pipa, là, su una barca in mezzo al mare, diventava all’improvviso portatore d’antica saggezza, capace di vedere, oltre ogni capacità umana.
Estratto 2
Si era lasciato trasportare da reminiscenze piacevoli, ricche di sensazioni, e mentre indossava la muta, continuava a sorridere scuotendo la testa. Era pronto. Una grattatina al mento del micio, e si tuffò.
Il mondo cambia volto sott’acqua, si attenuano i sensi, e ci si lascia avvolgere dall’ignoto, ma ribolle una vita silenziosa. Si percorre una città sotterranea, popolata da diverse tribù coloratissime, ognuna delle quali si esibisce in una sorta di danza distinguibile dalle diverse livree.
Mark procedeva cautamente tra i coralli, le selve di alghe, zigzagando tra archi e ponti di madrepore e curiosi abitanti del fondo, quando vide venirgli incontro uno squalo. L’animale gli si accostò e Mark rimase immobile. Il ventre bianco lo aveva sfiorato più volte, per poi virare e tornare su di lui; l’occhio nero impenetrabile sembrava fissarlo, mentre avvicinava le mascelle socchiuse, come sorridenti,
mostrando più file di denti appuntiti. Passò e ripassò al suo fianco finché con un breve colpo di coda, quasi ad insistere sulla sua poco gradita presenza, si allontanò. Mark non si mosse finché non lo vide inabissarsi verso acque più profonde.
Cercò di calmarsi, concentrandosi sulla respirazione, tranquillizzato, proseguì verso la catena di montagne. Iniziò a farsi largo tra cespugli di spine, ventagli, rami e arbusti. Doveva solo aprirsi un
varco per raggiungere la tridacna gigas. Aveva portato con sé l’occorrente, e faticando non poco, riuscì nel suo intento. Finalmente poteva vederla chiaramente, nell’armonia delle sue forme, colori e
complicate strutture, larga quasi un metro, dal peso all’incirca di duecento chilogrammi, immensa. Accarezzò il guscio, rapito dalle straordinarie dimensioni di quella creatura. Scattò diverse fotografie, e rendendosi conto che l’acqua diventava più scura, col calare della sera, velocemente risalì; il più del lavoro era fatto.
Estratto 3
Mark s’illuminò a quelle parole. Era in questa favola che gli aveva tenuto nascosta, la chiave di tutto. Non era una semplice storia per bambini, stava infatti, raccontando le sue paure, le verità più nascoste. Riprese la lettura:
Tra i giochi d’ombra, cercava ancora il suo sorriso, il suo calore, la tenerezza del suo abbraccio quelle tante parole, ma non era altro che il fruscio del vento tra la chioma degli alberi, il guizzo di qualche pesciolino, il verso insistente di una civetta dispettosa, nient’altro che il vuoto intorno, il re non c’era.
Dai suoi occhi neri, a frotte, piovvero a cascata, senza freni, centinaia e centinaia di lacrime, che precipitarono pure e cristalline nell’acqua del fiume… e d’incanto, l’acqua melmosa e scura gorgogliò, da ogni lacrima guizzarono mille gocce limpide e fresche, zampillanti come le stelle, che in luccicanti scie travolsero il buio, unendosi in un unico torrente che rapido si aprì un varco verso il mare aperto.
Una farfalla bianca le volteggiò intorno, sfiorandole il viso in una carezza,invitandola a seguirla.
La piccola gitana, raccolse il suo fagotto di stracci, tolse i sandali, poggiando sull’erba umida i piedi nudi, per percepirne la morbidezza. Si voltò verso il vecchio peschereccio abbandonato e s’incamminò per il sentiero nascosto dall’erba incolta che anni prima l’aveva condotta là.
NESSUNO LA VIDE PIÙ!
Era tornata, per sempre, nella sua foresta incantata, dove era regina indiscussa ed adorata di tutte le costellazioni, gli oceani, le stagioni, i colori dell’arcobaleno. Era tornata a correre, libera e ribelle, come sempre era stata.
Era tutto scritto chiaramente, dal principio all’addio.
Gli gnomi raccontano, ma è leggenda popolare, che accanto a lei ci fosse Britt, il piccolo cucciolo di husky abbandonato dal re. Britt le scodinzola accanto incuriosito da quel mondo magico, mentre lei, correndo verso il vento, recita sempre la medesima filastrocca:
“QUESTA NON È
UNA FAVOLA DI FANTASIA,
MA LA STORIA VERA,
DI UN UOMO CHE,
IO PICCOLA GITANA,
CREDEVO FOSSE UN RE…”
Mark spense il computer.
Stanchissimo, si distese in cabina, chiuse gli occhi, Bizet, accanto, faceva le fusa. L’aria tiepida lo scaldava, la piccola luce notturna a basso consumo lo rassicurava.