L’accattona

“Mamma, sta passando Rinella. Devi darle qualcosa, vuoi che la chiami dal balcone?
“Sì, sì. Fai presto che la busta dei vestiti smessi è nell’armadio del corridoio già da qualche settimana. Almeno ci leviamo questo ingombro e facciamo un po’ di spazio. Dille di passare nel pomeriggio che devo metterle ancora qualcosa da parte.”
Durante il cambio di stagione, Rosa aveva scartato un bel po’ di vestiti che ormai stavano stretti ai suoi figli. Generalmente li conservava ancora per un po’ prima di rassegnarsi a portarli dal parroco, a farne stracci per i vetri, quando la mussolina o il cotone erano più sottili, di quelli che non lasciavano il pelaccio, o ad accantonarli in scatole per poterli esibire, un domani, ai nipoti con orgoglio di nonna. Il più delle volte, però, l’esigenza di fare spazio in una casa che, di giorno in giorno, si rivelava sempre più piccola per i molteplici interessi della famiglia, la induceva ragionevolmente a sbarazzarsene. E, allora, incominciavano le grandi manovre dello smistamento che si rivelava altrettanto complicato che la selezione di scarto. Per fortuna c’era Rinella. Chi non la conosceva, in paese?
“E chi è Rinella?” aveva chiesto un giorno a sua cognata Anna.
“Rinella di Arcangelo, il figlio della comare Pina, quello che se n’è andato in Germania, o in Belgio, insomma al Nord, qualche anno fa e non è più tornato.”
“Ah, sì. Ora ricordo, quella specie di barbona che passa spingendo il carrozzino, attorniata da un nugolo di mocciosetti luridi di tutte le età. Quanti figli avrà? E sono tutti figli di Arcangelo?”
“Sì, poverina. L’ha lasciata che era incinta dell’ultimo, il lagnone della carrozzina. Che forza! Come riesce a tirare su una famiglia di sette figli?”
Rinella faceva l’accattona e non se ne vergognava. Suo marito era andato via senza lasciarle un soldo, anzi con qualche debituccio dal salumaio, qualche soldo da restituire alla comare Angelina, un bel conto dal vinaio Tommasino. E un conto anche nella sua pancia.

Erano trascorsi sei mesi, durante i quali Rinella non aveva ricevuto né assegni, né una riga di scuse o di commiato dal marito. Gli occhi le si erano asciugati a furia di piangere e l’intuito infallibile di donna le ripeteva che Nino non avrebbe mai conosciuto suo padre e che, presto, anche gli altri figli lo avrebbero dimenticato. Una madre può campare cento figli, si ripeteva per darsi coraggio. Finché, per amor loro, aveva pensato bene di accantonare quel residuo di orgoglio che le rimaneva e aveva incominciato a bussare a tutte le porte del vicinato.
“Se qualcosa non vi serve, per favore datela a me. Ne ho bisogno per tirare su i miei figli” andava dicendo in giro.
Non erano tempi di spreco, quelli, ma, anche se il consumismo non era ancora una brutta malattia, le cose si accumulavano ugualmente negli armadi, che non erano del tipo quattrostagioni come li abbiamo oggi. Perciò, dopo che gli indumenti avevano fatto il giro dei figli, l’ultimo dei quali era ormai un giovincello o una bella studentessa che si pavoneggiava con i libri sotto braccio e i vestitini confezionati, com’era l’ultima moda, era inutile tenere quegli spazi intasati. E così entrava in scena Rinella.
“Povera Rinella, l’hai vista che se ne va tutta storpia e ingobbita per i dolori e ancora si illude di raccogliere stracci per i figli? Ma come vivrà, senza una pensione? Che brutta vecchiaia!”
“Continueranno ad aiutarla come hanno fatto tutti finora.”
E, infatti, Rinella aveva continuato a raccattare robe vecchie anche quando, uno dopo l’altro, tutti i figli, compreso Nino, il più piccolo, se n’erano andati via in cerca di fortuna. Spingeva imperterrita il passeggino svuotato dei figli e stracolmo di sacchette. Nessuno si chiedeva mai dove andassero a finire i quintali di stracci che accumulava, i carrozzini di tutte le marche e fogge, fino ai seggiolini da auto di ultimissima generazione, che le figlie delle amiche e il vicinato continuavano a darle, le sacchette colme di alimentari, di scatolame e di merce che variava con il mutare della società.
In paese incominciavano a guardarla con sospetto. Che se ne faceva di tutti quei vestiti se poi indossava sempre gli stessi abiti logori, quei calzerotti perennemente smagliati ai calcagni rasposi infilati nelle scarpe scalcagnate?
Iniziava a trapelare una verità sconcertante. Correva voce che Rinella si recasse spesso in banca di mattino presto, appena arrivavano gli impiegati, e li attendesse nascosta dietro la colonna dell’atrio. Quando era giovane e aveva i figli da crescere, nessuno se n’era incuriosito. La banca del Monsignore aveva sede al Seminario, perciò si era pensato a un aiuto economico quando non c’erano altre forme di soccorso alle famiglie indigenti. Ma ora, che quella stessa banca aveva sede in un grande palazzo tutto in vetro e mostrava con orgoglio le insegne Monte dei Paschi di Siena, che ci faceva Rinella se non aveva un occhio per piangere?
“Povera Rinella, è impazzita. Che ingrati i figli, lasciarla così dopo tutti i sacrifici fatti per loro!” E via con il solito detto che una mamma può campare cento figli e non il contrario.
Dopo poco qualcuno riferì di avere visto Rinella con sua figlia Marta in un macchinone di lusso. Malignarono anche di Marta, pensarono che fosse la mantenuta di qualche uomo importante.
Si accumulavano notizie strane sulla donna; si diceva, per esempio, che due dei maschi studiavano medicina a Milano, che la figlia Tina si era aperta un laboratorio tessile a Prato e che aveva cinquanta dipendenti, tra operai e impiegati, che Nino era tornato in paese ad aprirsi una concessionaria di macchine di lusso. Da dove prendevano tutti quei soldi con una madre accattona?
Rinella, però, non si sbottonava mai con nessuno. Ogni tanto spariva, forse da qualche figlio o nipote, poi riappariva con la sua aria da poveraccia e la solita richiesta di roba vecchia per la famiglia che cresceva.
“La verità, comare Rosa, è che crescevano anche il suo conto in banca, i suoi investimenti, il lusso dei suoi figli. Purtroppo, in maniera proporzionale, cresceva anche la sua avarizia. L’avarizia è un vizio capitale, è ciò che piano piano l’ha derubata dell’identità di donna, della dignità di essere umano, della felicità di godere di una vita piena e agiata anche quando gli stenti potevano essere soltanto un brutto ricordo di gioventù.”

5 Commenti

  1. Ho avuto il piacere di scorrere la pagina di questo blog e ne sono felice.
    Il racconto mi ha colpito proprio perchè sa dell’incredibile.
    E’ difficile poter credere in storie come queste, soprattutto al giorno d’oggi. Tuttavia anch’io, come lei, continuo a farlo e, se mi capita, a scriverci qualcosa su…
    Ha uno stile di scrittura molto fluido e “sereno” e, per quanto sia amante dello stile frammentario, devo dire che l’apprezzo molto.
    Grazie ancora e un cordiale saluto,

    Manuela 🙂

  2. Grazie alle amiche Daniela e Marinella sempre prodighe di apprezzamenti che custodisco come preziosi incoraggiamenti a continuare a scrivere storie di vita vera che, molto spesso, hanno dell’incredibile. Molto più incredibili di quelle immaginate.
    Un affettuoso saluto
    Luciana

  3. Ciao Luciana, grazie per la piacevole lettura. Sapessi quante “Rinella” ci sono in giro. In un quartiere di Cagliari, c’è una famosa grotta, detta “La grotta del diavolo”. Rifugio per la notte, di una accattona, proprietaria di diverse ville. Come vedi, la tua storia racconta storie di vita vera.
    Complimenti vivissimi.
    Ti abbraccio affettuosamente

    Marinella (nonnamery)

  4. Carissima Luciana,
    complimenti per questo tuo bel racconto che, come sempre la tua scrittura, sa fondere ricordi legati al territorio a una capacità introspettiva e descrittiva che cattura.
    Un affettuoso saluto

    Daniela

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