“Mio dio, Luca, non fai che parlare! Sembri tutto nonna Adelia…!”
E poi si pentiva, e pensava alle sue lunghe ore di solitudine, ai suoi disegni.
Case, case, case, con file e file di fineste, tutte sbarrate, quasi ci si volesse rinchiudere dentro.
O forse non trovava la via d’uscita?
Come lei ora, che dopo tanti anni sarebbe voluta venir fuori dal groviglio, e cercava strisce, toppe, frammenti, per fare almeno un patchwork di ricordi. O forse ne aveva paura, e voleva solo un filo sottile per tentare di ricucire le ferite e fare magari un bel lifting al suo cuore? E sentiva un gran vuoto dentro quando le venivano in mente tutte le domande senza risposta, e i dubbi alla ricerca di certezze.
E si accorgeva che finora aveva cercato di nasconderli, come quegli oggetti inutili e scomodi che ti ritrovi sempre in mezzo e non hai mai il coraggio di buttare, e nella speranza di dimenticarli, li ficchi stretti stretti in un armadio.
Ma ora quelli incominciavano a premere, pigiando forte per uscire, e lei stava lì a braccia spalancate per bloccarli, come quando in sogno sentiva la casa che le cadeva addosso, e disperata, con le braccia, cercava di tener ferme le pareti.”
(…)
E’ il romanzo della fatica di essere donna, ma anche il romanzo della speranza, dove tante donne potranno ricoscersi, in un caleidoscopio di tanti specchi, in cui ciascuna potrà ritrovare un suo anche piccolo ritratto. La storia è ambientata a Torino, magica e malinconica, filtrata dal ricordo della situazione particolare in cui il racconto si svolge e dalla consapevolezza della problematicità della situazione femminile, che fa da filo conduttore.
“A ritroso nel tempo, vedeva tutta una cordata di donne che, spesso ignare, senza parole, avevano saputo resistere, guardando oltre i sacrifici e la fatica, i maltrattamenti e la violenza, e chine sul solco, alla macina o al telaio, avevano cercato la speranza. Anche per lei.
O forse proprio per lei e per chi, come lei, doveva ancora venire, ché loro si sentivano poco più che bestie, e soprattutto vinte.”
(…)
“Come Teresa, adulta ma col sorriso di bambina. Sempre vestita di nero.
Fuori del tutto emarginata. Dentro, violata, offesa, maltrattata.
…Così decise. E nella calura del solleone, quando il sole picchia e l’afa ti avvolge come una coperta bagnata, e lungo la strada le case dormono con le palpebre abbssate, e se incontri qualcuno non alza nemmeno gli occhi, uscì di casa. Ma non era sola. Portava uno sgabello sotto il braccio, quello per appoggiare i piedi quando era seduta che, così piccola, non toccava terra.
Fuori, la strada calda, deserta. Chi passa tira dritto, a capo chino, come d’inverno, quando s’intabarra, che soffia la tramontana, e fa fatica a tirar fuori pure una parola.
Ecco il ponte, la spalletta. E lo sgabello. Per l’ultimo salto.
Tutto si sistema. E il corpo affiora sul fiume, ch’è una pozza e non c’è acqua nemmeno per i germani, appollaiati qua e là sui sassi bianchi. E gli schizzi, ch’è stato un gran tonfo, gli scivolano senza refrigerio, sulla prosciugata iridescenza delle ali.
Sofferenza di donna. Senza voce. Occhi di bambina che non hai voluto guardare per non sentirne l’urlo. Occhi di donna. E invece basterebbe guardarsi per condividere e capire…”
***
Dal libro Essere Donna – ovvero – Aznareps, il volo della speranza di Lidia Colla
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