Era il giorno di Pasqua

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Era il giorno di Pasqua, la nonna mi teneva per mano ed insieme andavamo alla Santa Messa.
Era un giorno di sole e l’aria profumava di fiori.
Uscimmo dalla cancellata che circondava la nostra casa e ci inoltrammo verso la Chiesa.
“Nonna, guarda, lo vedi quel soldato che è uscito dal ponte  con il grosso zaino sulle spalle? Lo conosci?”
“No, sono molti i soldati che circolano per la città.”
La voce della nonna era incrinata, sentii la sua mano stringere forte la mia e dai suoi occhi celesti e dolci, vidi cadere lacrime che sapevo cocenti: aveva cinque figli al fronte. Furono citati sul giornale della città come esempio glorioso.
Sapevamo che uno di essi, lo zio Giacomo, era stato fatto prigioniero e deportato in Germania. Lo avevano prelevato  mentre stava facendo il servizio di Leva Militare, senza un perché.
Non sapevamo dove lo avessero portato e per quanto tempo.
Fummo rassicurati perché lo zio non era ebreo; tutta la nostra famiglia non lo era.
“Vedrà Signora che suo figlio tornerà, non pianga, lui non è ebreo!”
Il cuore mi si strinse di vergogna e ad un tempo si dilatò per il sollievo che provavo . Poteva esserci una differenza tra un ragazzo ebreo ed uno che non lo era? Capii che era così!

Non vedi che ha la testa abbassata? Porta l’elmetto  il volto non si vede. Lo zaino deve essere pesante.
Nonna, guarda, ha alzato la testa, nonna a me pare, sì nonna, è lo zio Giacomo!
“E’proprio lui! vero nonna?”
La nonna ebbe un fremito; socchiuse gli occhi e ficcò lo sguardo presbite sulla faccia del giovane che si stava avvicinando col volto sorridente.
“Giacomo!”
Gridò: “E’ lui, è proprio lui!!!

“Signore, grazie per questa Pasqua, perdonami se non veniamo alla Messa; mio figlio, uno dei miei figli è tornato!
“Giacomo, sei tu, sei davvero mio figlio che torna? “ E guardando me: “Sì, sì, sì!”
Lo zaino fu lasciato cadere a terra lentamente senza che lo zio cessasse di sorridere. Strinse la sua mamma forte, talmente forte che pareva volesse strizzarle l’anima tanto da provocarle una esplosione di gioia gridata, fragorosa , mescolata al singhiozzo del pianto, mentre a me nel petto il cuore  faceva capriole.
Ero molto agitata. Li lasciai e corsi a ritroso verso casa per dare a tutti la grande notizia.
Rimanemmo seduti intorno alla tavola per alcune ore, in silenzio assoluto, ad ascoltare la voce stanca di quel giovane zio di vent’anni che era ritornato a piedi dal campo di concentramento di Mathausen.
Come era stato possibile varcare le Alpi, a piedi?
Gli guardammo le scarpe. Portava degli scarponi molto grossi che non erano particolarmente consumati. I piedi invece erano sì consumati, erano piagati.

La nonna gli porse una catinella con dell’acqua tiepida per dargli un po’ di ristoro. Senza interrompersi si asciugò, spalmò sopra e sotto i piedi l’unguento balsamico che gli avevano dato i signori della montagna.
I superiori avevano deciso di trasferire un numeroso gruppo di prigionieri da un campo all’altro. Lo zio era fra questi.
Alcuni soldati delle SS controllavano la fila, distribuiti da cima a fondo: uno ogni 20 ragazzi circa.
Ein, zwei, drei… Ein, zwei, drei… Ein zwei drei!
Non erano ammesse esitazioni, le baionette erano costantemente puntate su di loro.
Mentre cercava di allacciare lo scarpone, una baionetta infilzò la spalla dello zio.
Non fece in tempo ad accasciarsi a terra, venne subito strattonato e rimesso in piedi.
Molti di loro erano italiani e due di essi, lo zio Giacomo ed un compagno,approfittando di attimi in cui gli occhi degli accompagnatori guardavano altrove, si portarono poco alla volta in fondo alla fila.
Camminarono sulla strada sterrata nei solchi di terra dura lasciati dai carri, fiancheggiata da un fossato.
Il passaggio di un camion li aiutò. La fila si dispose sul ciglio della strada e subito, appena passato il veicolo, con azione fulminea, i due si gettarono nel fosso, dietro la siepe erbosa abbastanza alta da poterli nascondere. Il  motore coprì il rumore dei loro passi e il fruscio della loro scivolata nell’erba.
Stettero col fiato sospeso a lungo, non osarono guardare la riga scura della fila che si allontanava. Con le mani sul capo rimasero immobili, tutto taceva, nessuno si era accorto di nulla.
Ripresero il cammino andando in diagonale in tutt’atra direzione, attraverso boschi e campi. Nei paesi incontrarono pochissime persone che non fecero loro domande. Portavano la divisa militare ed essi non seppero distinguerla da quella di Germania, non suscitarono sospetto e essi non ebbero paura.
Riuscirono a farsi trasportare da un camion fino quasi al confine. Proseguirono dormendo qualche ora sotto le stelle, mangiando frutti selvatici  e bevendo ad un abbeveratoio di cavalli nei pressi di un casolare.
Un altro tratto di strada lo percorsero in treno utilizzando qualche marco che era rimasto custodito in una delle loro tasche.
Varcarono il confino a notte fonda, lontani da  luoghi abitati.
Avevano freddo, tanto freddo, perché sulle Alpi, ad Aprile, anche a bassa quota, c’è la neve.
In un paese italiano furono ospitati, sfamati e dissetati. Il pane, la pastasciutta, la mela, parvero loro nettare degli dei. Per mesi si erano nutriti di  patate, bucce di patate e una brodaglia nerastra che avevano sentito dire contenesse dei vermi per rifornirli di proteine.
Allo zio lavarono e medicarono la ferita alla spalla con un unguento che,  dissero, l’avrebbe subito cicatrizzata.
Non si fidarono di prendere altri mezzi per il proseguimento del loro viaggio perché in Italia, i soldati erano subito riconosciuti e controllati dalle pattuglie sparse su tutto il territorio.
Diversamente da come si sarebbe potuto  pensare, avrebbero corso un pericolo maggiore.
Camminarono per quattro giorni, dormendo pochissismo, sedendo per terra di tanto in tanto per lo sfinimento e raggiungendo la nostra città in bicicletta; due biciclette incustodite che avevano prontamente rubato e che avevano poi abbandonato  nella campagna quando videro in lontananza le sagome alte e grigie dei palazzi cittadini.
Il Signore Risorto, quella Pasqua, avrebbe perdonato anche questo . Ne erano certi!

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Dorella Dignola M.

Dorella Dignola Mascherpa è nata a Bari nel 1938 ed ha vissuto a Milano fino al 1995 per poi trasferirsi ad Arona, sul Lago Maggiore per trovare vita più quieta e tempo da dedicare alla poesia ed alla letteratura. Ama la pittura e vi si dedica con uguale passione, partecipando a mostre collettive nelle varie località del lago Maggiore ed a Milano. Riceve innumerevoli Premi Letterari nazionali ed internazionali tra i quali:
– Trofeo Charles Baudelaire – Parigi – 5/10/2002 per tre sezioni (poesia, romanzo, saggio). – Trofeo “Garcia Lorca” – Madrid – per tre sezioni (Poesia, romanzo, saggio). – San Marco, Città di Venezia – Premio Speciale della Giuria di poesia. – AUPI – Premio Speciale di poesia Kelly Grace – 2004 Poesia. – Fiera Int. Del Libro – Torino – Premio Autore di Poesia. – Giubileo 2000, “Omaggio a Dante” 14/4/2000 – Roma – premio di poesia. E’ iscritta all’Albo Ufficiale Poeti Italiani. Pubblica il suo primo Libro di Poesia “Il Piccione Viaggiatore” nel 2004 – I romanzi: Il Progetto – gennaio2004; Il Fratello – dicembre 2004; Mirto – dicembre 2005; Al di qua degli occhi – febbraio 2008; Pensieri da un’esperienza – aprile 2008. Ottenendo un buon successo sia da parte dei lettori che dei critici. – Vincitrice del PREMIO MANUALE DI MARI 2009 – Primo Premio Assoluto

1 COMMENT

  1. Cara Dorella,
    grazie per questa pagina della memoria che sa riportare alla luce con tanta sensibilità “i giorni della paura” nella speranza che dal passato giunga la lezione per un futuro migliore

    Daniela

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