Dal Capitolo I – La fuga –
Questa storia ebbe inizio qualche anno fa, ma quando ripenso a quegli avvenimenti ho la sensazione che da allora sia trascorso moltissimo tempo. Era l’epoca in cui la mia passione diventava sogno e la mia paura mostrava ciò che temeva, e ciò che temeva accadeva.
La mia povera anima sembrava destinata a essere risucchiata nel nulla in ogni notte di incubo. Eppure di quel “Tempo dei Sogni”, così vicino, così lontano, sento ancora oggi, di tanto in tanto, un’incredibile nostalgia.
In una notte di novembre vidi quell’uomo per la prima volta. Un risveglio violento mi aveva fatto schizzare dal materasso come una molla, sottraendomi all’angoscia del sogno. Ero rimasto seduto a lungo sul bordo del letto, poi mi ero avvicinato alla finestra e avevo guardato giù in strada. Dovevano essere state quasi le cinque, perché dopo qualche minuto sentii sferragliare sui binari il primo tram della giornata. Una leggera foschia formava un alone umido e grigio attorno alla luce gialla del lampione. L’uomo era là, una sagoma alta e scura in mezzo alla strada deserta. Dalla mia finestra del terzo piano non potevo scorgere il suo volto, ma sono sicuro che era lui. Restava immobile sotto il lampione e sembrava che stesse guardando verso di me. Le luci nella mia stanza erano spente, quindi non poteva vedermi. Il cane era accucciato alla sua sinistra, senza guinzaglio. Era un animale impressionante, grosso e grigio; aveva l’aspetto di un lupo. Forse era un husky o un altro cane da slitta.
L’uomo si allontanò dal lampione quando le prime automobili cominciarono a tormentare il nuovo giorno. Il cane lo seguì.
Un altro che non riesce a dormire, pensai.
Molte persone vivono vite anonime, dalle quali vorrebbero a volte fuggire. lo avevo un lavoro, una fidanzata e abitavo in un appartamento ammobiliato per il quale pagavo un affitto da stillicidio.
La Compagnia per cui lavoravo godeva di buona salute economica, mi garantiva pasti quotidiani decenti, tre settimane di ferie in agosto e la pensione al compiere dei sessant’anni. Non avevo dunque diritto di lamentarmi. Tre quarti della popolazione mondiale mi avrebbero considerato un privilegiato, ma non di solo pane vive l’uomo. Il ripetersi sempre uguale dei miei gesti, ogni giorno di ogni anno, mi stava lentamente infondendo un senso di profonda noia e dolorosa stanchezza, che era in procinto di sopraffarmi.
Un giorno la mia fidanzata decise di lasciarmi, probabilmente su consiglio di sua madre.
Anna Lisa era una ragazza bruna, non molto alta, tranquilla, un po’ noiosa. Non so perché ci fossimo messi insieme; in pratica aveva deciso tutto lei e io non avevo avuto la forza di oppormi. Non posso affermare che il suo abbandono mi avesse sconvolto: io e lei non eravamo in grado di innescare reazioni chimiche reciproche, fondamentali nel rapporto tra i sessi, e ci tediavamo a vicenda.
Il difetto più evidente che trovavo in Anna Lisa era la sua famiglia. Purtroppo una relazione non è una faccenda tra due persone, ma tra due tribù, e la sua era una tribù di cannibali. Tenuti debitamente a distanza, forse, il padre e il fratello non avrebbero causato molto fastidio. Il problema vero era lei, la madre. Anzi: La Madre. Una piovra ingombrante dai lunghissimi tentacoli. L’ultima creatura al mondo che un giovanotto di belle speranze vorrebbe avere come suocera, escluso forse il mostro di Loch Ness.
Le mie notti agitate avevano reso insopportabile quella routine. Non ricordo con precisione da quando il mio sonno aveva cominciato a essere disturbato.
Nei primi giorni in cui era accaduto, la coscienza aveva conservato poche tracce dell’attività onirica, brevi frammenti di immagini che non riuscivo a ricomporre in una sequenza logica. Col trascorrere dei mesi, le visioni inquietanti erano riuscite a infiltrarsi sempre più in profondità nella mia mente, quasi una tenia ci avesse scavato un cunicolo. Sognavo una nube nera, turbolenta, una specie di eruzione vulcanica che pareva dotata di vita propria. Verso l’autunno i problemi si aggravarono. C’era qualcosa nelle mie notti che sembrava volermi afferrare e trascinare in un angolo oscuro e sconosciuto della mia mente, l’Inferno, forse, da dove non sarei più riuscito ad emergere, né avrei più visto la luce del giorno. Era qualcosa di subdolo che si nascondeva e strisciava nel buio di quella nube, senza mai mostrarsi.
Allora mi svegliavo improvvisamente in un bagno di sudore, respirando con affanno. Difficilmente riuscivo a riaddormentarmi. Ero preoccupato. Non temevo tanto l’Inferno, quanto le lunghe ore che avrei dovuto passare in un ufficio anonimo e sterile, barcollante come un pugile per il quale era suonato l’ultimo gong della vita.
Le passioni, sia quelle dell’anima che quelle del corpo, hanno la prerogativa di dare origine ai sogni. Lasciai perdere le prime e mi concentrai sulle seconde. Non avevo col cibo un rapporto parossistico, nonostante mi reputassi un cuoco discreto. Non fumavo, bevevo con molta moderazione, men che meno facevo uso di droghe. Avevo chiesto consiglio al mio medico, ma non sembrava prendere molto sul serio i miei disturbi.
«Lei fuma?» mi chiedeva.
«No.»
«Alcol, caffè?»
«No.»
«Nessun vizio!»
«Di questi no.»
«Lei è sano come un pesce.»
Non sarebbe stato in grado di distinguere un pesce sano da un cavallo bolso, quel vecchio cocainomane dalle narici dilatate. «I miei sogni sono angoscianti,» dissi.
«Se dovessimo dar retta ai sogni… Roba da signorine romantiche.»
Una mattina avevo trovato un parafango dell’automobile ammaccato e il vetro del fanale posteriore in frantumi. Ero poi arrivato tardi al lavoro per via di un ingorgo. Il mio malumore, conseguenza dell’ennesima notte agitata, era aumentato. Dicembre stillava tristezza. Era una di quelle giornate in cui avrei desiderato trovarmi su un altopiano dell’Asia centrale, a pascolare un qualsiasi branco di animali, lontano mille miglia dalla città più vicina.
Io e Mrs Pennington di Alberto Zella – Solfanelli, 2011 – pag. 283
Il commento di NICLA MORLETTI
Perché sogniamo? Questo è un dilemma antico quanto l’uomo e a cui nemmeno Sigmund Freud è riuscito a trovarne una risposta. Argomento interessante. E l’autore parte proprio da qui, da questa idea, per dar vita ad un romanzo avvincente e originalissimo. I sogni infatti portano il protagonista Davide Rossero in un mondo sconosciuto, nascosto tra le pieghe dell’anima dove il bene e il male combattono l’arcana battaglia della vita e dove i ricordi giacciono in attesa della loro liberazione. Il confine tra sogno e veglia diviene quasi impercettibile, realtà e reminiscenze corrono sullo stesso filo conduttore. Prende sempre più corpo tra le pagine la figura misteriosa di Mrs. Agatha Pennington, padrona di casa di Davide, incontrata in un giorno di forte vento davanti alla Royal Albert Hall. Questa vera signora dei sogni e figura carismatica rivela che proprio nei sogni ci viene indicata la nostra vera essenza e che attraverso i sogni si possono curare i dolori dei ricordi… In uno stile inconfondibile l’autore ci guida attraverso un viaggio affascinante nel “Tempo dei sogni” e dai cui il lettore rimane attratto e catturato. Ma per saperne di più è necessario leggere tutta la storia. Ne varrà la pena!
“Io e Mrs Pennington” è il romanzo di esordio di Alberto Zella.