Sognando l’Africa in sol maggiore di Michelangelo Bartolo

Sognando l’Africa in sol maggiore di Michelangelo Bartolo

da Parte I – Tanzania
In viaggio

È notte fonda, uno stato di dormiveglia mi accompagna. Guardo l’orologio e mi accorgo di aver dormito almeno un paio d’ore. Non male.
L’economic class non permette posizioni comode e ogni volta ho la sensazione che lo spazio per le mie gambe sia sempre più angusto. Non sembra ma questi tre chiletti accumulati durante le vacanze si fanno sentire tutti. Ancora scarse due ore di volo e atterrerò a Dar es Salaam. Se non fosse per la velocità di crociera di 910 chilometri orari riportata sul monitor del mio sedile, sembrerebbe di stare immobili. Accanto a me un omone dalla stazza imponente è in letargo da diverse ore. Beato lui.
Mi alzo e faccio una passeggiatina per il corridoio cercando di urtare il meno possibile gli arti debordanti di altri passeggeri. Qualche passetto per sgranchirmi le gambe anche per mettere in atto quel minimo di prevenzione delle tromboflebiti che raccomando sempre ai miei pazienti. Ritorno al mio posto. Mi aspettano settimane intense e se riuscissi a dormire ancora un pochino non sarebbe male.
A Dar es Salaam, anche se è appena l’alba, mi avvolge un caldo immobile. Esco dall’aeroporto e subito individuo Omary, il tassista di fiducia, che mi libera dei bagagli e mi fa tuffare nella sua macchina refrigerata.
A differenza di quanto pensavo e comunemente si crede, Dar es Salaam non è la capitale ma solo la città più grande della Tanzania. Il nome è suggestivo e significa “porta della pace”, la città, decisamente meno: è una metropoli caotica, disordinata, che negli ultimi anni ha avuto un grande sviluppo. Si moltiplicano grattacieli, nuovi alberghi, centri commerciali accanto a enormi quartieri dormitorio con alcune case in muratura, molte altre di legno, baracche e baracchette che si affacciano sulle grandi arterie della metropoli che si spingono in senso centrifugo per chilometri.
L’aeroporto non è lontano dal centro della città. Di notte bastano una manciata di minuti per raggiungerlo ma di giorno il tempo necessario può moltiplicarsi in modo logaritmico: per dieci, per cento, per mille, se si è digiuni di matematica.
Con la luce del sole Dar es Salaam appare per quella che è: una città in fermento, marciapiedi affollati all’inverosimile, autobus presi d’assalto, un brulicare di persone in perpetuo movimento. Il centro commerciale della città è avvolto da un ronzio di sottofondo: centinaia di piccoli e grandi generatori decorano i marciapiedi e garantiscono, durante i frequenti blackout, quel minimo di corrente elettrica per far continuare le attività commerciali.
Le strade accolgono un traffico paralizzante. Il risultato è che puoi restare fermo nello stesso punto anche per cinque, dieci minuti. È normale, nessuno si lamenta, quasi nessuno fa il furbo zigzagando tra le macchine. Si attende pazientemente per decine di minuti e, improvvisamente, senza nessun apparente motivo, qualcosa si sblocca e il moto delle macchine riprende il suo lento movimento.
Colpa di tanto immobilismo è la gestione degli incroci da parte di qualche sprovveduto poliziotto. Senza esagerare è capace di tenere una corsia ferma anche per otto, dieci minuti. E anche qui, nessuno protesta; già il fatto di stare in macchina è un privilegio e d’altra parte, stare fermi al semaforo non è per niente noioso: a tratti sembra di essere in un centro commerciale. Si vendono libri, scarpe, mele, ananas, banane, acqua, noccioline, pannocchie, antenne TV, coltelli, cartine geografiche, presine, canovacci, stampelle, lenzuola, asciugamani, calzini, mutande, canottiere, ciabatte, scarpe, zanzariere, orologi, occhiali, calcolatrici, set di pinze, cacciaviti e chiavi inglesi, pesce fresco o fritto, sapone, DVD, lampadine, cappelli, gelati, pompe per biciclette, copertoni, camere d’aria, sturalavandini, cerotti, ricariche telefoniche, carica batterie, pile, torce a led, cavi per batterie, pupazzi di peluche e, addirittura, giornali e fazzoletti di carta.
Sono ormai passati più di 10 anni dalla mia prima missione in Africa. Ero partito per il Mozambico solo per dare un episodico aiuto alla realizzazione di DREAM, un programma di cura e prevenzione dell’AIDS promosso dalla Comunità di Sant’Egidio, e nonostante i propositi contrari e tutte le precauzioni adoperate, anch’io sono stato colpito dal mal d’Africa, che, come per la malaria e l’AIDS, non ha ancora un vaccino. E così le mie missioni si sono moltiplicate e, a forza di visti di ingresso ed uscita in diversi paesi dell’Africa Sub-Sahariana, ho già consumato tre passaporti e collezionato punti miglia con diverse compagnie aeree fino ad raggiungere la gold della sky team. Sono soddisfazioni.
Ormai in Tanzania sono quasi un habitué; da qualche mese ho anche il Permanent Resident, un permesso di residenza della durata di due anni, un lasciapassare che mi permette di transitare per il controllo passaporti bypassando con nonchalance l’interminabile fila di turisti in attesa del visto.
Nella sola Tanzania abbiamo tre centri DREAM per la cura e la prevenzione dell’AIDS e quattro servizi di telecardiologia che sono una specie di dependance del reparto di cardiologia del mio ospedale di Roma.
Il programma di questa missione è piuttosto intenso; ho in agenda di andare a visitare i nostri centri sanitari che hanno la particolarità di distare non meno di mille chilometri l’uno dall’altro e impongono quindi intere giornate da dedicare solo agli spostamenti.
Di per se, essendo angiologo, la mia formazione medica non avrebbe nulla a che fare con programmi di prevenzione e trattamento dell’AIDS ma da quando sono stato nominato responsabile del reparto di telemedicina dell’ospedale San Giovanni di Roma, il numero delle mie missioni è decisamente aumentato. Grazie alla tecnologia e internet, infatti, possiamo controllare a distanza i diversi centri sanitari, l’andamento clinico dei nostri pazienti e così, ancor prima di arrivare in loco, so bene quali problematiche incontrerò in ogni centro di cura.
Ad Iringa, città nel cuore della Tanzania, il centro DREAM sta crescendo molto velocemente. Lo staff è qualificato, sono volenterosi e ben preparati, ma dai dati visionati da Roma ho la sensazione, anzi la certezza, che devono seguire meglio i nuovi protocolli terapeutici dei bambini.
A Masanga, piccolo villaggio al nord del paese, a pochi chilometri dal confine con il Kenia, il centro di cura è gestito dalle suore figlie della Carità che hanno iniziato da poco il trattamento dell’AIDS e le problematiche sono tante, troppe. La corrente elettrica è garantita solo da un generatore e un paio di impianti solari; la connettività ad internet è invece affidata ad un collegamento satellitare che però, da quanto ci risulta, funziona malissimo e da quasi una settimana non dà più segni di vita.
In compenso ad Arusha, dove sono diretto dopo questa rapida tappa a Dar es Salaam, il centro DREAM, aperto da più di quattro anni, funziona decisamente bene: il laboratorio di biologia molecolare e il centro clinico garantiscono la terapia a quasi 1000 pazienti e il loro numero è in continua costante ascesa.
Da qualche mese, però, ho notato uno strano fenomeno, difficilmente spiegabile: abbiamo avuto un aumento del tasso di abbandono dei pazienti che è stato evidenziato anche dall’alert del software. Lo scambio di e-mail con il dottor Kingaru, responsabile del nostro centro clinico, confermava questo fenomeno decisamente anomalo.
Un aumento del tasso di abbandono dei pazienti può essere generalmente dovuto a due cause: la diminuzione dell’aderenza di alcuni pazienti che non prendono regolarmente la terapia ed iniziano a saltare le visite o un incremento della malaria, che talvolta, in pazienti defedati, può fare aggravare le già precarie condizioni generali ed essere una spiegazione dell’abbandono. Sicuramente nei prossimi giorni lo capirò meglio.
Con me c’è Federico, il fisioterapista mio omonimo, con il quale c’è ormai un feeling molto stretto, uno dei miei compagni di missione preferiti, forse anche perché come me, suona la chitarra, ed è appassionato di Ben Harper, musicista inglese che suona e canta da Dio. Ci conosciamo da oltre vent’anni ed abbiamo all’attivo almeno una decina di trasferte. È un gran lavoratore, instancabile: è capace di stare in un centro di cura per dieci ore di seguito per controllare nel dettaglio le cartelle cliniche di ogni paziente, la farmacia, i magazzini, l’uso inappropriato del software e ogni particolare del centro sanitario. Ha il pregio di sdrammatizzare ogni situazione e di essere sempre calmo e di buon umore, anche troppo a volte. Unico difetto, se così si può dire, fuma come un disperato ed è quasi completamente calvo. Di per sé la calvizie potrebbe anche non interessarmi se non fosse che la sua alopecia mi impedisce di chiedergli in prestito lo shampoo che io sistematicamente dimentico. Ok, a dir la verità non lo dimentico, non lo porto per scelta. Ormai da anni uso solo le confezioni shampoo degli alberghi, ma questa volta il carrello delle pulizie dell’hotel di Dar era sempre presidiato come un portavalori dal personale dell’albergo e non ho potuto fare la mia consueta scorta.
Dopo una mattinata spesa o sprecata – non l’ho capito – in delicate e interminabili riunioni al Ministero della Salute, ci dirigiamo di corsa, con sole due ore di inevitabile imbottigliamento nel traffico, all’aeroporto di Dar es Salaam, scalo aereo dedicato a Yulius Nierere, il padre della Repubblica Democratica della Tanzania.
Da quando Grayson, il nostro precedente autista, ha deciso di dedicarsi ad un più redditizio commercio di maiali, ci affidiamo sempre ad Omary, taxista di fiducia: piccolo di statura, abbondante di addome, folta capigliatura grigia, lo apprezzo particolarmente anche perché, avendo le gambe decisamente corte, porta il sedile di guida tutto in avanti creando dietro di sé un ampio spazio per il passeggero che in genere sono io. Guida praticamente con il volante sotto il mento che impugna all’altezza delle clavicole incurante dello strato di adipe che talvolta struscia sul volante. Quando gli telefoni, al posto dell’anonimo “tuu tuu” ascolti una specie di samba che stride decisamente con il suo aspetto e la sua flemma. Ovviamente con tutti questi ostacoli anatomici Omary non è proprio un mago della guida ma, cosa fondamentale, è un uomo di fiducia e conoscendo ormai tutti i luoghi che frequentiamo è diventato un riferimento sicuro. Ma c’è anche un’altra grande qualità di Omary che mi ha di fatto convinto che è lui l’autista ideale: parla solo se interpellato. La sua età è sempre stata per me un mistero: credo che sia vicino alla pensione ma non ho mai osato indagare.
Arriviamo all’aeroporto. Federico scatta alla ricerca di un carrello portabagagli ed io inizio il rito della contrattazione sul prezzo del taxi, che ormai si limita ad una mia comunicazione: sono io che lo informo di quanto lo pago. Ad ogni suo tentativo di alzare il prezzo della corsa rispondo sempre allo stesso modo:
“Ok, Omary, come vuoi, ma non so se la prossima volta ti chiamerò”.
A me basta questa semplice frasetta per far accettare la mia proposta di retribuzione e ad Omary per riconfermarsi come taxista di fiducia.
Mi fa la ricevuta con la solita esasperante lentezza; la compila, la legge, rilegge, strappa il fogliettino dal blocchetto delle ricevute come se stesse strappando un assegno da un milione di dollari, la piega e la ripone in una busta con la stessa cura con cui si prepara una lettera per un direttore generale.
Mentre Omary è assorto in questi delicati compiti ne approfitto per soddisfare la mia curiosità.
“Amico – gli chiedo – ma quanti anni hai?”.
“…e tanti dottore, tanti. Ormai sono vecchio”.

***
Sognando l’Africa in sol maggiore
di Michelangelo Bartolo
2014, pag. 157
Gangemi Editore
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Il commento di NICLA MORLETTI

È esemplare questo libro di Michelangelo Bartolo, con le sue avventure, storie di vita e di speranza narrate con uno stile fluido e snello, un pizzico di humor che non guasta mai, tanta passione e immensa poesia. L’autore, oltre ad essere scrittore di talento, è anche e soprattutto medico e angiologo che ha effettuato decine di missioni in Africa per aprire centri sanitari per la prevenzione e il trattamento dell’HIV. Dopo il grande successo de “La nostra Africa”, ecco questo nuovo romanzo tramite il quale l’autore ci conduce in territori sconfinati e esperienze sconosciute dalla Tanzania al Malawi, in uno spaccato del programma DREAM per garantire vita e futuro a migliaia di esseri umani. Bartolo con la sua immensa umanità e brillante scrittura, possiede il dono dell’immediatezza nel raccontare di appassionanti fatti straordinari. Attraverso la lettura di pagine indimenticabili ci fa vivere insieme a lui le sue imprese africane. L’amore per l’Africa è per Bartolo come una favola, un sogno indimenticabile e raggiungibile, tangibile e immenso. Il bene si può ancora trovare, il bene esiste, c’è. L’autore ne è un esempio concreto: oltre a possedere una straordinaria vocazione per la medicina, si mette al servizio degli altri donando loro vita e speranza. Egli con perfezione e lucidità espressiva racconta ciò che ha visto con i suoi occhi. Appassionante, spassoso, divertente. Un grande romanzo per ricominciare a credere e a sognare, un libro di cui hanno scritto con entusiasmo anche Andrea Camilleri, Roberto Gervaso, Catena Fiorello, Paolo Bianchini, Paolo Masini, Giulio Albanese, Mario Marazziti, Gabriele Cirilli, Christiana Ruggeri. Fantastico.

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